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Conto alla rovescia per il telelavoro dei frontalieri

Una quota di telelavoro da garantire anche alla manodopera frontaliera
Una quota di telelavoro da garantire anche alla manodopera frontaliera © Keystone / Christian Beutler

Corsa contro il tempo per scongiurare penalizzazioni fiscali ai frontalieri e alle frontaliere per i quali dal 1° febbraio non varranno più le agevolazioni sul telelavoro concordate tra Berna e Roma durante la pandemia.

“È urgente arrivare ad avere quanto prima un nuovo accordo amichevole che vada a sancire anche per i frontalieri italiani, un numero di giorni all’anno in cui possano lavorare da casa senza avere implicazioni negative a livello previdenziale e fiscale”.

Ad oggi infatti, precisa il dirigente sindacale dell’OCST (Organizzazione cristiano-sociale ticinese) Andrea Puglia, con la revoca del precedente accordo amichevole  – che fu fatto soprattutto pensando alla situazione Covid e alle connesse restrizioni alla libera circolazione – “noi dal 1° febbraio non avremo alcun testo giuridico che regolamenti in modo chiaro il lavoro dei frontalieri italiani, con il rischio quindi che questi poi debbano andare a pagare imposte sul reddito prodotto in telelavoro”. 

Un’interrogazione a Roma per sollecitare il governo

Per evitare che questo accada, visto che il tempo stringe, una settimana fa il parlamentare di Fratelli d’Italia Andrea Pellicini ha inoltrato un’interrogazione: “Non so ancora nulla in merito ed è difficile che ci siano novità questa settimana”, rileva il deputato varesino alludendo ai numerosi dossier su cui è attualmente impegnato l’esecutivo e, in particolare il Mef. “Non è detto che una risposta alla mia interrogazione arrivi entro il 31 gennaio ma nei prossimi giorni tornerò alla carica”, assicura Andrea Pellicini. 

“Non è detto che una risposta alla mia interrogazione arrivi entro il 31 gennaio ma nei prossimi giorni tornerò alla carica”.

Andrea Pellicini, deputato di Fratelli d’Italia

Intanto però, se non ci saranno liete novelle nel frattempo, a fine gennaio di fatto non sarà più consentito il telelavoro ai frontalieri e alle frontaliere italiani/e occupati/e in Svizzera: l’intesa amichevole stipulata tra Berna e Roma durante l’emergenza pandemica è stata disdetta di comune accordo lo scorso 23 dicembre e saranno di nuovo applicate le norme fiscali ordinarie che assoggettano alla tassazione italiana il reddito conseguito nel tempo trascorso al proprio domicilio.

La novità ha però immediatamente sollevato questioni di varia natura: innanzitutto non è del tutto comprensibile il fatto che più o meno nelle stesse ore le autorità federali abbiano annunciato, con argomentazioni di segno diametralmente opposto, un accordo con la FranciaCollegamento esterno sullo stesso tema, che autorizza l’home office dei salariati e delle salariate transfrontalieri/e residenti oltre confine, senza variazioni del relativo regime fiscale, fino a una quota del 40% del loro tempo di lavoro annuale.

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Sull’intesa sottoscritta da Berna e Parigi il servizio del tg del 23 dicembre 2022.

Regime diverso tra fisco e previdenza sociale

Inoltre è evidente l’incongruenza rispetto alla regolamentazione previdenziale di questa categoria di dipendenti. L’Unione Europea ha infatti deciso di prorogare fino al 30 giugno 2023 la sospensione delle norme vigenti che fanno scattare la competenza dello Stato di residenza – oltre la soglia del 25% di telelavoro – per quel che riguarda i contributi pensionistici e gli altri oneri sociali (art. 13 del Reg. CE n. 883/04Collegamento esterno e art. 14 del Reg. CE n. 987/09Collegamento esterno).

Una tempistica divergente che non sembra trovare giustificazioni convincenti e su cui si sono mobilitati sindacati svizzeri (Unia e OCST) e organizzazioni economiche ticinesi (AITI e CCIA) che nelle scorse settimane hanno sollecitato per iscritto la Segreteria di Stato per le questioni finanziarie internazionali di rinegoziare la questione con Roma.

Reazioni anche oltre confine

Mentre al di là del confine c’è da evidenziare la presa di posizione della Regio Insubrica, la comunità di lavoro che promuove la cooperazione transfrontaliera, che ha lanciato un appello via epistolare di analogo tenore al ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti.

E nelle ultime ore è arrivata anche la nota congiunta dei sindacati italiani CGIL, CISL e UIL in cui viene espressa “forte preoccupazione” per la disdetta dell’accordo amichevole sul lavoro a distanza dei lavoratori frontalieri. Le organizzazioni sindacali ritengono “urgente” che i governi “aprano una celere discussione che permetta di intervenire in maniera strutturale sul tema del lavoro a distanza garantendo una regolamentazione strutturale e (…) perlomeno una nuova proroga allineata alle disposizioni contributive”.

Ma c’è di più. A rendere ancora più intricato il quadro c’è l’ipotesi che ora possano venire tassati anche i datori di lavoro elvetici. Per questi ultimi, che consentono ai propri dipendenti residenti nel Belpaese di esercitare parte della loro attività a distanza, potrebbe infatti profilarsi il concetto di “stabile organizzazione” su suolo italiano che li renderebbe assoggettabili all’Agenzia delle Entrate.

“La stessa Svizzera “è interessata a far sì che i lavoratori residenti, indipendentemente dalla loro nazionalità, mantengano alcuni vantaggi” (nessun limite legale al telelavoro) nei confronti dei pendolari stranieri”.

Andrea Puglia, sindacato OCST

Punto di equilibrio tra frontalieri e residenti

Una soglia di tempo dedicata all’home office del 40%, come quella contenuta nell’accordo definitivo raggiunto da Berna e Parigi, viene indicata da Andrea Puglia (OCST) come possibile punto di equilibrio per un’analoga intesa italo-svizzera.

Da una parte rappresenta infatti un beneficio per lavoratori e lavoratrici – in termini di qualità di vita – e per le aziende che proprio dall’esperienza del confinamento hanno potuto constatare i pregi, sul piano della razionalizzazione dei costi e della gestione del personale, derivanti dal lavoro in remoto.

Dall’altra è difficilmente ipotizzabile che si possa andare oltre un 40%, osserva il responsabile “frontalieri” del sindacato ticinese. L’Italia infatti difficilmente sarà disposta a concedere a frontalieri e frontaliere la possibilità di “lavorare da casa per più di due giorni alla settimana, senza dover pagare imposte a Roma”. Ma anche la stessa Svizzera “è interessata a far sì che i lavoratori residenti, indipendentemente dalla loro nazionalità, mantengano alcuni vantaggi” (nessun limite legale al telelavoro, ndr) nei confronti dei pendolari stranieri. Poi ovviamente l’eventuale modifica della quota massima di telelavoro dipenderà dall’evoluzione del mercato del lavoro globale.

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Il servizio del Quotidiano della Radiotelevisione svizzera RSI dello scorso 9 gennaio.

Semmai l’aspetto che per taluni è problematico, come è stato evidenziato bene sulla stampa vicina agli ambienti politici “identitari” (in particolare la Lega dei ticinesi), riguarda il fatto che il telelavoro è diffuso essenzialmente nel terziario, vale a dire il settore che con la libera circolazione ha conosciuto l’incremento maggiore di manodopera frontaliera e che è più in diretta concorrenza con i salariati e le salariate locali.

Telelavoro richiesto da dipendente e dalle stesse aziende

Una tesi che non trova riscontro però tra le organizzazioni del lavoro. La questione della concorrenza sleale tra frontaliere e residente, avverte sempre Andrea Puglia (OCST), non si risolve impedendo il telelavoro, che tra l’altro non ha implicazioni a livello salariale, ma andando a regolamentare meglio il mercato del lavoro nei settori sensibili. Non è un caso, precisa, che è proprio il terziario l’ambito più sguarnito di contratti collettivi di lavoro e dove il dumping salariale è endemico.

La realtà è che, come indicano vari studi e le stesse associazioni economiche (Aiti e Camera di commercio), c’è una totale mancanza di manodopera locale in alcuni settori specifici del terziario, come ad esempio nel comparto informatico, e per attrarre dipendenti qualificati dall’estero, segnala Andrea Puglia, occorre garantire loro una certa quota di home office.

Ritorno in Italia per lavorare da casa

Anche perché si sta assistendo presso numerose aziende informatiche al nuovo fenomeno del ritorno del personale in Italia dove il salario è più basso (ma non bassissimo perché sono pur sempre imprese ad elevata qualifica) ma non vi sono limiti al telelavoro. E proprio per contrastare questa tendenza i datori di lavoro elvetici stanno concedendo ai loro dipendenti di svolgere le loro mansioni integralmente in remoto, al 100% da casa. 

In questo quadro quindi una certa quota di telelavoro, al di là di considerazione di tipo ambientale legate al traffico motorizzato, costituisce un elemento concorrenziale per il mercato del lavoro, in particolare della Svizzera italiana (ma non solo), che è seriamente minacciato dall’imminente scadenza del 31 gennaio.

Le sollecitazioni alle due capitali sono state inviate e filtra un cauto ottimismo: “Riteniamo che si possa arrivare già alla metà del 2023 ad avere un accordo amichevole sul telelavoro e che questo abbia una validità retroattiva proprio per far sì che si risolva questo problema del reddito tassabile dal fisco italiano dal 1° febbraio, che è un assurdo”, conclude Andrea Puglia.





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