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Migranti, l’intesa con l’Albania alla prova dei numeri

Un operatore umanitario tiene una bimba immigrata.
Procedure delocalizzate in Albania, la scommessa del Governo italiano. KEYSTONE/LaPresse

La gestione esterna dei flussi migratori non sembra suscitare preclusioni di principio ma pone interrogativi sul suo impatto reale. L'analisi dell'esperto svizzero Etienne Piguet e i rilievi dell'agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR).

Il discusso accordo sui migranti, stipulato lo scorso 6 novembre tra Roma e Tirana, sta seguendo il suo iter parlamentare ma sullo sfondo restano diverse incognite che stanno animando il dibattito politico.

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La novità principale dell’intesa è costituita dal fatto che le e i profughi soccorsi in acque internazionali da navi dello Stato italiano – vale a dire guardia costiera, finanza o marina militare – potranno essere dirottati verso le due strutture che verranno realizzate in Albania, al porto di Shenhjin e nell’ex base militare a Gjader, allo scopo di espletare le pratiche per l’ottenimento della protezione internazionale. Senza accedere quindi, almeno nella prima fase, al territorio della vicina Repubblica. Il tutto, naturalmente, a spese e sotto la giurisdizione di Roma.

Il patto, della durata di 5 anni, prevede che i migranti adulti di sesso maschile vengano sbarcati nel porto di Shenhjin per l’identificazione e la prima accoglienza. Successivamente i richiedenti verranno trasferiti all’interno a Gjader, dove saranno “trattenuti”, con modalità analoghe ai centri di permanenza e rimpatrio (CPR), in attesa dell’esame della loro domanda. La realizzazione delle due strutture, con una capienza di 3’000 persone, è a carico dello Stato italiano che per il primo anno dovrà stanziare 16,5 milioni di euro.

Criticato dalla sinistra e dalle organizzazioni umanitarie, che parlano di operazione costosa e inefficace che è stata promossa solo a fini propagandistici, l’accordo che prevede sostanzialmente l’esternalizzazione della gestione dei flussi migratori (o almeno di parte di essi), ha trovato però sponde in ambito continentale. “Diventerà un modello di collaborazione tra Paesi UE e Paesi extra-UE”, aveva detto la premier italiana Giorgia Meloni dopo la firma apposta al documento durante l’incontro con il primo ministro albanese Edi Rama in novembre.

Precedenti non incoraggianti

A far sorgere i dubbi sull’intesa sono però i precedenti tentativi, più o meno recenti, di esternalizzazione dell’asilo che sono stati sperimentati con scarso successo, in particolare da Regno Unito e Danimarca.

“È ingenuo e semplicistico respingere questi accordi poiché sarebbero da considerarsi sbagliati per definizione”.    

Etienne Piguet, Università di Neuchâtel

“Dal profilo generale gli accordi – ci dice Etienne Piguet, professore di geografia umana all’Università di Neuchâtel ed ex vicepresidente della commissione federale svizzera sulle migrazioni – che mirano a trattare le domande d’asilo al di fuori del territorio dello Stato verso il quale le persone in fuga – come i casi Italia-Albania, Regno Unito-Ruanda, Australia Nauru, e via discorrendo – pongono numerose questioni in termini di rispetto dei diritti fondamentali e del diritto d’asilo”.

Questi accordi “devono dunque essere considerati in modo molto critico”, tanto più che la motivazione di tali intese è indubbiamente prima di tutto quella di evitare gli arrivi e non tanto di proteggere le persone. Detto questo, continua l’esperto di migrazioni, “è ingenuo e semplicistico respingere questi accordi poiché sarebbero da considerarsi sbagliati per definizione”.    

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Esternalizzazione già praticata

E questo, aggiunge Etienne Piguet, per almeno tre ragioni. Innanzitutto, il fatto di proteggere le persone in un posto diverso da quello in cui esse vorrebbero idealmente trovare asilo “è una pratica adottata da lungo tempo, come testimoniano i campi realizzati in prossimità delle zone di crisi”. Ma questa ipotesi è indirettamente contemplata “anche dagli stessi accordi di Dublino laddove, per esempio, prevedono che la domanda di protezione internazionale sia trattata dal primo Paese d’arrivo nell’Unione Europea”.

Un secondo aspetto da tenere in considerazione è che l’esame (“screening”) preliminare al di fuori del paese di destinazione delle persone che possono successivamente vedersi riconosciuta una tutela “è una procedura attuata da lungo tempo – e con successo – per il ricollocamento delle e dei profughi da parte dell’Agenzia ONU per i rifugiati (HCR)”.

Inoltre, continua l’accademico neocastellano, il sistema d’accoglienza dell’asilo sta attraversando una grave crisi e l’esplorazione di vie alternative, nel caso in cui esse siano in grado di concretizzare un sistema migliore in termini di protezione effettiva delle e dei migranti, “non dovrebbe rappresentare un tabù”.

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Ancora una volta, insiste Etienne Piguet, ci si può rammaricare del fatto che in merito agli accordi bilaterali appena citati siano spesso governi di tendenza “anti-migranti” a promuovere tali cambiamenti di sistema. Ma questo, aggiunge, “non dovrebbe negare la possibilità di prendere in considerazione nuovi modelli di protezione”.

Competenza ed effetto dissuasivo

In questa vicenda non è possibile ovviamente trascurare la questione della competenza e della responsabilità in materia. La giurisprudenza ha confermato l’orientamento secondo il quale spetta allo Stato che riceve per primo le e i migranti – dunque in questo caso l’Italia – a doversene occupare, con i problemi che ne derivano.

Non va trascurato a questo proposito il fatto, anche se non è del tutto esplicito, che l’idea alla base dell’adozione di queste misure, sottolinea il professore di Neuchâtel, è che il numero di richiedenti tenderà verosimilmente a calare significativamente a causa del loro effetto dissuasivo sulle persone che non hanno motivi impellenti di protezione. Per i sostenitori di queste politiche si tratta di una buona cosa. Gli ambienti favorevoli a un’accoglienza diffusa e con poche restrizioni sono evidentemente dell’idea opposta.

“Gli Stati possono stipulare accordi di trasferimento legale a patto però che vengano rispettati pienamente i diritti derivanti dalla Convenzione sui rifugiati e gli obblighi in materia di diritti umani”

Filippo Ungaro, portavoce dell’Alto Commissariato dell’agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR)

Alcune criticità presenti

Da parte sua l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), ci dice il portavoce Filippo Ungaro, ha sollevato “diversi interrogativi sulle modalità di attuazione” dell’accordo italo-albanese ed ha evidenziato “alcune criticità”.

Di norma, infatti, le e i richiedenti asilo e le persone rifugiate dovrebbero essere accolti e le loro domande esaminate nel territorio dello Stato in cui arrivano e in cui chiedono protezione. Gli Stati possono stipulare accordi di trasferimento legale a patto però, sottolinea il rappresentante dell’HCR, “che vengano rispettati determinati standard, in particolare se tali Paesi rispettino pienamente i diritti derivanti dalla Convenzione sui rifugiati e gli obblighi in materia di diritti umani, e se l’accordo contribuisca a condividere equamente la responsabilità per i rifugiati tra le nazioni, anziché trasferirla”.

Gli accordi per il trasferimento, insomma, dovrebbero contribuire, precisa Filippo Ungaro, “a migliorare lo spazio di protezione complessivo e rispettare e rendere effettive le garanzie del sistema di asilo per ciascun richiedente interessato dai trasferimenti”.

Quindi, per riassumere, anche per le e i protagonisti del settore sul campo e negli atenei, non sembrano esserci preclusioni di principio a un’intesa che contempli la possibilità di gestire all’esterno dei propri confini i flussi migratori.

Difficoltà pratiche

Vengono semmai sollevati dubbi sulle modalità concrete di attuazione di queste politiche e sulle motivazioni reali che muovono i governi. Inutile precisare a questo proposito che gli stessi esponenti politici che hanno promosso intese di questo tipo hanno esplicitamente evocato la funzione deterrente di queste norme nei confronti di chi si appresta a tentare di sfidare le acque del Mediterraneo a bordo di imbarcazioni di fortuna.

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A complicare la realizzazione di questo disegno sembrano però esserci alcuni nodi giuridici che i vari tribunali coinvolti, tra cui anche le massime istanze europee, non hanno fin qui contribuito a sciogliere.

In linea generale si pone un quesito di parità di trattamento in ordine alle persone destinate ad approdare nelle due strutture in Albania che, come detto, potranno sbarcare solo da navi dello Stato e non da quelle delle ong. Come è emerso nelle ultime settimane dovrebbe trattarsi solo di maschi adulti, provenienti da Paesi sicuri (per i quali il trattamento della pratica di asilo non dovrebbe comportare particolari problemi). Donne, bambini e persone fragili continueranno ad essere condotti verso porti italiani.

“Il sistema d’accoglienza dell’asilo sta attraversando una grave crisi e l’esplorazione di vie alternative, nel caso in cui esse siano in grado di concretizzare un sistema migliore in termini di protezione effettiva delle e dei migranti, non dovrebbe rappresentare un tabù”.

Etienne Piguet, Università di Neuchâtel

Dovrà quindi essere organizzata e coordinata la selezione e il trasbordo di migranti da più unità navali in alto mare, che non si prospetta un’operazione semplice (in particolare riguardo alle persone prive di documenti per le quali occorrono approfondimenti).

Inoltre, l’ubicazione “esterna”, rende oggettivamente più gravosa la ricerca e il contatto con le e i legali eventualmente incaricati di trattare i ricorsi di coloro che si vogliono opporre alle decisioni negative. In proposito verranno allestite postazioni e supporti telematici per intrattenere i rapporti con gli uffici legali e per le udienze presiedute dalle commissioni territoriali chiamate a decidere sul diritto d’asilo. 

Ricorsi sulla procedura accelerata di frontiera

Nel dettaglio c’è poi l’aspetto tecnico delle “procedure accelerate di frontiera”, introdotte dal decreto Cutro del marzo 2023, che si vogliono applicare in Albania ma per le quali è scoppiata una controversia giudiziaria, su cui dovrà esprimersi prossimamente la Corte di giustizia europea.

La vertenza è sorta dopo che il Tribunale di Catania non ha convalidato il trattenimento di alcuni tunisini nel Centro di permanenza e rimpatrio (CPR) di Pozzallo. A essere contestata è soprattutto la cauzione di 5’000 euro introdotta dal decreto Cutro, necessaria per evitare di attendere la decisione sulla richiesta d’asilo nei CPR. Queste strutture sono state create per trattenere migranti in attesa di espulsione o richiedenti ritenuti problematici per l’ordine pubblico.

Inoltre le restrizioni personali devono essere convalidate entro 48 ore da un giudice che potrebbe sospendere la misura. Contro le ordinanze del Tribunale palermitano ha ricorso l’Avvocatura dello Stato in Cassazione. Quest’ultima si è quindi rivolta alla Corte di Lussemburgo che dovrà esprimersi sulla legittimità del decreto Cutro nei confronti della Direttiva UE 2013/33 sull’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale.

Una detenzione “di fatto”, quella nei CPR, che il Governo Meloni ha esteso fino a una durata massima di 18 mesi e che dovrebbe applicarsi, al netto delle peculiarità dell’accordo con Tirana (durata ridotta), anche all’analoga struttura di Gjader. Detto altrimenti, il trattenimento in Albania di questi soggetti potrebbe essere sconfessato dalla giustizia e in ogni caso, se non giungesse un verdetto sulla domanda d’asilo entro i 18 mesi previsti, i e le richiedenti dovrebbero essere comunque trasferiti in Italia (a spese di Roma).

Espulsioni difficili da eseguire

Al di là delle controversie legali, che prima o poi saranno chiarite, c’è però il fattore numerico che rischia di rendere complicata l’intera operazione.

Il testo concordato prevede infatti la gestione di 36’000 pratiche in Albania con decisioni sulle richieste d’asilo in 28 giorni (3’000 migranti ogni mese), termine entro il quale saranno esaminati anche gli eventuali ricorsi del giudice (in prima istanza le pratiche sono esaminate da cinque commissioni territoriali): le persone ammesse all’asilo dovranno essere trasferite in Italia, le altre rimpatriate.

Un meccanismo che dovrà confrontarsi con il numero elevato di sbarchi sulle coste italiane (oltre 145’000 l’anno scorso) e con le difficoltà oggettive connesse con le espulsioni di coloro che non ottengono il diritto all’asilo, che possono essere effettuate solo nei pochi paesi (7) con cui l’Italia ha stipulato un accordo di riammissione.

Più nel dettaglio, nel 2022 sono state rimpatriate solo la metà (49,4%) delle persone transitate nei CPR – vale a dire 3’154 su un totale di 6’383 individui – a fronte di 28’000 decreti di espulsione emessi. I rimpatri totali sono stati 3’916, quasi tutti con paesi con cui esiste una convenzione: 2’308 in Tunisia, 518 in Albania, 329 in Egitto, 187 in Marocco e 109 in Nigeria e in Georgia. Allo stesso tempo il 48% delle domande d’asilo inoltrate ha avuto esito positivo in primo grado e il 72% in appello.  

Proiettando le stesse percentuali sul traffico previsto nel centro di Gjader dovremmo attenderci 840 espulsioni al mese (10’080 all’anno) dall’Albania, che però non potranno essere concretamente effettuate che nella misura del 50%. Ragione per la quale queste teoriche 400 persone e più al mese dovranno essere comunque trasferite in Italia.

Un dibattito che ha investito anche Berna

La questione è rimbalzata anche a Palazzo federale a Berna, dove sono stati depositati alcuni atti parlamentari. In proposito il Governo, rispondendo a un postulatoCollegamento esterno alla Camera bassa lo scorso 14 febbraio, ha ricordato che “una delocalizzazione delle procedure non era attuabile per motivi sia giuridici sia pratici” e che “il Parlamento ha confermato a più riprese” questa posizione.

Altri sviluppi

Tuttavia, ha aggiunto il consigliere federale Beat Jans, visto che il tema è al centro del dibattito in diversi Paesi europei, l’esecutivo intende “procedere a un’analisi attuale delle iniziative e delle discussioni condotte a livello europeo ed esaminarne la compatibilità con il diritto svizzero e gli impegni internazionali della Svizzera”.

Nel frattempo, non molti giorni dopo, il Governo ha risposto a un’analoga sollecitazione del deputato della Lega Lorenzo QuadriCollegamento esterno sottolineando che “finora nessuno Stato europeo ha potuto attuare un progetto di questo tipo”, ma nel contempo “continuerà a seguire gli ulteriori sviluppi”.

In seguito, il 13 marzo il Consiglio Nazionale ha approvato una mozioneCollegamento esterno promossa dal gruppo liberale radicale in cui viene chiesto al Governo di individuare uno Stato terzo sicuro con cui stipulare un accordo di transito di tre giorni per gli eritrei e le eritree respinte da Berna (in quel lasso di tempo le e i profughi dovrebbero richiedere un documento di identità per l’ingresso nel loro Paese alla rappresentanza consolare competente).

Una decisione parlamentare presa nonostante il Consiglio federale avesse spiegato che una tale procedura “sarebbe inutile e genererebbe soltanto costi supplementari per il ritorno e l’accoglienza (in Svizzera) degli interessati” ai quali non verrà concesso il rimpatrio.

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