I cervelli ticinesi se la danno a gambe
Quello della fuga di cervelli è un fenomeno che interessa in particolare il canton Ticino. Molte le ragioni – tra queste anche una grande presenza di lavoratrici e lavoratori frontalieri sul territorio cantonale – poche le soluzioni (attualmente). Ne abbiamo parlato con due esperte della struttura economica ticinese.
È recentemente uscita una notizia che all’apparenza non ha nulla di sorprendente: la natalità è calata nel canton Ticino. Una tendenza che riflette non solo quella elvetica, ma anche quella globale. Oltre alle ragioni più note (fattori economici e maternità sempre più tardive in primis), nel cantone italofono, secondo una recente analisi, la denatalità è influenzata anche dalla fuga di cervelli, anch’essa sempre più marcata.
Il Ticino, insomma, sembra averle tutte: i salari sono i più bassi della Confederazione, gli aumenti di premi di cassa malati i più alti e molti studenti e studentesse che si recano in altri cantoni per studiare all’università, poi restano anche a viverci.
La ragione spesso è che le condizioni lavorative sono migliori, sia a livello salariale che per quanto riguarda le opportunità professionali, come ci spiega anche Amalia Mirante, docente di economia politica, etica economica e storia del pensiero economico presso la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI) e l’Università della Svizzera italiana (USI): “Purtroppo il Ticino è in una situazione per cui molte e molti giovani – che non per forza sono solo quelli che hanno titoli accademici – sono costretti a cercare lavoro altrove”. Il fatto che il fenomeno della fuga di cervelli non interessi più soltanto chi ha una formazione di livello terziario, ma anche professionale, accentua le difficoltà del mercato del lavoro ticinese. “Si tratta di campanelli di allarme molto importanti”, aggiunge Mirante.
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Il traballante mercato del lavoro ticinese
A dimostrarlo anche l’esempio della giovane chef Dalila Zambelli. Con il titolo di miglior apprendista cuoca della Svizzera, la giovane si è vista rifiutare da decine di ristoranti del suo cantone natale e ha dovuto così optare per la Svizzera interna. Spiegava, lo scorso mese di dicembre, in un’intervista rilasciata al Corriere del TicinoCollegamento esterno, che, nonostante il settore della ristorazione ticinese denunci da anni carenze di personale, ha ricevuto solo risposte negative alle sue candidature. Situazione che l’ha spinta a traslocare a Zurigo: “È chiaro che mi sarebbe piaciuto trovare qualcosa in Ticino, ma ho bisogno di fare esperienza e per questo, quando mi si è presentata l’opportunità di andare [nella città sulla Limmat], non ho esitato (…) Sto imparando e crescendo, non solo professionalmente ma anche come persona”. Parola di una ragazza che, negli Stati Uniti, ha cucinato anche per Bill Clinton.
Carenza statistica
I cervelli fuggono, si sa. Ma quanti? E dove? Per quanto tempo? Non è chiaro. “Le poche cifre che abbiamo a disposizione su questo fenomento sono poco precise”, dichiara Mirante. “Non considerano per esempio i giovani che rimangono a lavorare fuori cantone dopo la formazione ma mantengono il domicilio in Ticino. Non viene nemmeno presa in considerazione una nuova forma di lavoro che sta prendendo piede [in particolare dopo la pandemia di Covid-19, ndr]: le persone lavorano una parte della settimana in Ticino e l’altra in un altro cantone”. Tendenze ed evoluzioni che fanno sì che il fenomeno sia molto più ampio di quello che emerge dalle statistiche.
Una carenza statistica che proprio in questi giorni si sta cercando di colmare, ci spiega Barbara Antonioli Mantegazzini, professoressa titolare alla Facoltà di scienze economiche dell’Università della Svizzera italiana (USI) e vicedirettrice dell’Istituto di ricerche economiche dell’USI.
Alcune stime
Qualche stima, però, è già possibile: “Conducendo la nostra attuale indagine abbiamo potuto stabilire che, tra gli studenti ticinesi che conseguono la maturità, orientativamente due terzi decidono d’iscriversi all’università; di questi, il 15% circa sceglie un ateneo ticinese. Il resto si reca tipicamente oltralpe (Zurigo, Losanna e Friburgo in primis) o all’estero [dove c’è una più vasta scelta di facoltà in cui studiare, ndr]. Per le materie economiche, la percentuale di chi rimane aumenta. A riprova del fatto che se c’è un’offerta di qualità, gli studenti e le studentesse rimangono”, prosegue Antonioli Mantegazzini.
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Fuga di cervelli e nuove migrazioni a confronto
Una stima, invece, dei rientri dopo gli studi è complicata, i fattori in gioco sono molti e manca, come detto, una base statistica dedicata. C’è chi lavora oltre Gottardo, ma lascia il domicilio in Ticino o chi dal Ticino fa smartworking per un’azienda che ha sede in un altro cantone. “Quello che abbiamo fatto è un ragionamento per fascia di età. Negli ultimi tre anni i e le 25-40enni che se ne sono andati dal Ticino sono stati mediamente circa 1’550, mentre gli arrivi sono stati 950, per un saldo negativo di circa 400 persone. A titolo di paragone (e un’ottima illustrazione della tendenza in corso), Zurigo ha un saldo positivo di circa 2’500. È comunque interessante rilevare che su quei 950 arrivi, una certa quota – fino anche a un terzo circa del totale – può essere classificata come rientri di giovani che tornano in Ticino dopo un soggiorno e/o un’esperienza in un altro cantone.
Le ragioni di questo fenomeno
Abbiamo chiesto alla professoressa Antonioli Mantegazzini quali sono le principali ragioni che spingono le e i giovani ticinesi a dire “Arrivederci!” al loro cantone di origine per stabilirsi altrove. “Certamente le opportunità economiche e di carriera hanno un ruolo di primo piano, ma anche la possibilità di svolgere professioni maggiormente adeguate alle proprie inclinazioni e avere accesso a una più vasta offerta di servizi e a un ambiente sociale più ampio e vivace. Questi temi sono il cuore dell’indagine che stiamo attualmente conducendo. Quello che attualmente possiamo dedurre è che queste persone se ne vanno, da una parte, per le ragioni universitarie di cui sopra e dall’altra per svolgere alcune professioni che implicano mansioni particolarmente qualificate, per le quali l’offerta di lavoro in Ticino risulta essere più limitata. In genere si tratta di impieghi in ambito scientifico e ingegneristico”, ci spiega.
Una puntata della trasmissione Falò della Radiotelevisione della Svizzera italiana dedicata a questo tema:
Il mercato del lavoro ticinese, aggiunge la studiosa, è particolare ed è diverso da quello del resto della Svizzera: “A parte la questione salariale, che ormai è nota a tutti, la struttura di questo mercato è caratterizzata da una prevalenza di piccole e medie imprese (PMI). Nel resto della Svizzera [soprattutto nell’area dei grandi centri urbani, ndr] abbiamo invece un mercato calibrato su servizi di imprese più grandi”. Queste, prosegue, non solo offrono compensi più alti, ma “anche delle opportunità e traiettorie di carriera meglio strutturate. Nelle PMI i passaggi di funzione sono più ridotti. In quelle grandi ci sono più livelli intermedi di carriera”.
Salari ticinesi fanalino di coda del mercato del lavoro svizzero
Da anni i salari ticinesi risultano essere i più bassi del Paese e con il tempo il divario aumenta sempre di più. Nel 2022 il salario mediano* elvetico per un posto a tempo pieno era di 6’788 franchi lordi al mese. Una remunerazione che varia fortemente a seconda delle regioni, della formazione, del ramo economico e del sesso. Il Ticino è risultato nuovamente essere il cantone dove si guadagna meno, con un salario mediano di 5’590 franchi.
* Per salario mediano s’intende che la metà degli stipendi è sopra la cifra indicata, l’altra metà è sotto. Non è quindi una media, su cui incidono maggiormente i singoli importi molto alti o molto bassi.
Il fenomeno zurighese (ma non solo) dell’economia di aggregazione
In effetti, a parte alcune eccezioni, i grandi nomi si trovano nella Svizzera interna e in quella francese, dove l’economia di agglomerazione è molto più radicata. IBM, Google, Nestlé, Microsoft hanno sedi nei grandi centri urbani elvetici.
“Zurigo si sta espandendo a una velocità incredibile e attira sempre più giovani di altri cantoni, non solo dal Ticino”, spiega Antonioli Mantegazzini. Una situazione che origina un “circolo virtuoso: si espandono le attività di ricerca e formazione che attirano gente. Dove c’è una concentrazione di persone, c’è una concentrazione di attività. Queste diventano delle zone innovative, che attirano sempre più persone giovani e formate”.
Una conseguenza di questa concentrazione sono anche le ripercussioni positive sulla vita privata: migliori servizi per le famiglie, una più facile conciliazione tra vita lavorativa e privata e una maggiore offerta culturale e di divertimento (teatri, cinema, bar, ristoranti, festival, concerti, per elencarne solo alcuni). Insomma, la vita sociale di un/a trentenne a Bellinzona non è la stessa di un/a trentenne a Zurigo. A dimostrarlo anche l’esempio qui sotto…
Abbiamo chiesto a uno di questi “espatriati cantonali” il perché della sua scelta di lasciare il Ticino per stabilirsi a Berna.
Originario del Mendrisiotto, appena conseguito il diploma di architetto, poco più di una decina di anni fa decisi di lasciare il Ticino. Meta: canton Friburgo. Ero attratto dall’idea di vivere al centro del Paese, in un posto dal quale sono facilmente raggiungibili le diverse realtà della Svizzera francofona e di quella tedesca. Il mio attaccamento a questa condizione di centralità si è molto rafforzato con il passare degli anni. Adesso vivo nella capitale e nel tempo libero ho la fortuna di poter approfittare delle possibilità di svago offerte da Berna stessa e da città come Zurigo, Basilea, Losanna… Inoltre, discutendo con amici più o meno coetanei rimasti in Ticino, posso constatare le loro perplessità riguardo al salario percepito e a certi aspetti relativi alla qualità del tempo libero. Se da un lato la quantità di eventi non manca, dall’altro, al di fuori delle varie manifestazioni, hanno l’impressione che gli spazi di incontro sono pochi e temono che in futuro possano ridursi ulteriormente.
Gustavo (nome di fantasia)
Caro frontalierato… ma quanto mi costi?
Uno dei fattori che influenzano maggiormente questa fuga di cervelli è quello del frontalierato. Stando alle ultime statistiche, le frontaliere e i frontalieri italiani che lavoravano in Ticino nel primo trimestre del 2024 erano 78’645, a fronte di una popolazione attiva residente pari a 176’000 persone. In altre parole, quasi un lavoratore su tre (31,6%) proviene da oltre confine.
Perché questo è un problema? Perché molto spesso, a parità di funzione, un frontaliere o una frontaliera accettano condizioni salariali più vantaggiose per il datore di lavoro rispetto a lavoratrici e lavoratori indigeni. “La differenza tra i salari di residenti ticinesi e quelli frontalieri è del 20%. Una percentuale che può arrivare al 40% per le professioni meglio retribuite”, spiega Amalia Mirante.
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Cresce ancora il numero di frontalieri e frontaliere italiane
Si migra allora verso nord, alla ricerca di condizioni più favorevoli. Le e i ticinesi a nord del Gottardo, le e gli italiani a nord della frontiera. Prosegue Amalia Mirante: “Quello che succede è che l’Italia finanzia la formazione di persone qualificate, competenti e assolutamente capaci che poi vanno a lavorare in un’altra nazione”. Un problema che però riguarda anche il loro Paese di origine, che perde professionisti qualificati, proprio dopo aver investito del denaro per formarli.
“La Germania qualche anno fa pensava di introdurre una tassa da far pagare ai medici tedeschi che andavano a lavorare in Svizzera”, ricorda la studiosa. Formare un medico, infatti, comporta un grande costo per un Paese. L’Italia si trova confrontata con lo stesso problema e proprio recentemente il ministro della Salute Orazio Schillaci ha proposto l’adozione di un piano d’incentivi fiscali per cercare di convincere professioniste e professionisti medici di rimanere in patria.
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Tassa sulla salute, la Svizzera nega i dati dei frontalieri
Nella stessa direzione va anche la tanto discussa tassa sulla salute che prevede che i vecchi frontalieri paghino al sistema sanitario italiano tra il 3 e il 6% del loro stipendio netto. Contributi volti a finanziare i bonus per il personale sanitario italiano e limitare l’esodo di lavoratrici e lavoratori dalle regioni di frontiera.
Quali soluzioni?
Non ci sono soluzioni immediate e sicure per cercare di arginare il fenomeno. Una sarebbe sicuramente quella di rendere più attrattivo il mercato del lavoro ticinese. Come? Un aumento dei salari sicuramente sarebbe un buon incentivo, secondo la professoressa Barbara Antonioli Mantegazzini, che precisa che lo scopo dello studio che attualmente sta conducendo con il suo team è proprio di trovare alcune soluzioni.
Ma non solo: “Andrebbero create le condizioni per migliorare l’equilibrio tra vita professionale e lavorativa. Servono poi offerte d’impieghi coerenti con le capacità sviluppate nel tempo [ossia che permettano alle persone che hanno studiato in Ticino di poter applicare quanto imparato durante gli studi universitari, ndr]. Non è qualcosa che si risolve immediatamente. L’idea di fondo, comunque, è che si deve creare un territorio che sia attrattivo per tutte quelle persone che ci tengono a vederlo crescere”.
Non si è arrivati, insomma, a un punto di non ritorno, rassicura dal canto suo Amalia Mirante: “È tutto risolvibile. C’è potenziale per essere un cantone svizzero a tutti gli effetti”.
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