La tassazione del telelavoro dei frontalieri ha ora una base legale
Dopo il Consiglio nazionale, anche quello degli Stati ha approvato giovedì la legge federale ad hoc sull'imposizione del telelavoro dei lavoratori e delle lavoratrici frontaliere. La norma ricalca le soluzioni già negoziate separatamente con la Francia e l'Italia.
Prima dello scoppio della pandemia di Covid-19 le convenzioni per evitare le doppie imposizioni (CDI) si fondavano su un principio assai semplice: il reddito da lavoro era imponibile nel luogo in cui era svolta l’attività lavorativa.
Le restrizioni introdotte con il coronavirus e la diffusione del telelavoro hanno completamente sovvertito questa architettura normativa. Improvvisamente decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici frontaliere hanno dovuto svolgere la loro attività al proprio domicilio. E in teoria, quindi, avrebbero dovuti essere tassati nel loro Paese di residenza. Con Francia, Italia, Germania e Liechtenstein sono però stati rapidamente sottoscritti degli accordi amichevoli, per regolamentare in modo temporaneo la situazione e fare in modo che il sistema d’imposizione non cambiasse. Con l’Austria non è invece stata raggiunta un’intesa e il Canton San Gallo, ad esempio, ha dovuto rimborsare alla manodopera frontaliera austriaca le imposte alla fonte prelevate per i giorni in cui hanno lavorato da casa, per un importo complessivo tra i 4,4 e i 5,5 milioni di franchi.
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Le intese erano comunque limitate nel tempo e con la fine della pandemia il problema si è riproposto, tanto più che il telelavoro si era nel frattempo generalizzato. Nel giugno 2023, la Svizzera ha così siglato con la Francia un accordo in base al quale “può essere svolto in modalità di telelavoro fino a un massimo del 40% del tempo di lavoro annuale senza che venga messo in discussione l’eventuale statuto di lavoratore frontaliere del lavoratore o il diritto di imposizione dello Stato in cui ha sede il luogo di lavoro”. Lo stesso è avvenuto con l’Italia. L’intesa con Roma entrata in vigore il primo gennaio di quest’anno prevede però che la percentuale del tempo di lavoro annuale sia limitata al 25%.
Certezza del diritto
Mancava però ancora una base legale a livello nazionale affinché il reddito da attività lucrativa svolta in modalità telelavoro possa essere soggetto a imposta in Svizzera. Un adeguamento legislativo – precisava il Governo federale nel suo messaggioCollegamento esterno al Parlamento – volto “a creare certezza del diritto fin dall’inizio”.
Da giovedì è cosa fatta, poiché dopo il Consiglio nazionale anche quello degli Stati ha approvato all’unanimità la proposta del Consiglio federale.
Una riforma necessaria, ha sottolineato la ministra delle finanze Karin Keller-Sutter, poiché anche se alla Confederazione viene concesso il diritto di tassazione in base a un trattato internazionale, come avviene attualmente per la Francia e l’Italia, permane il dubbio che la base giuridica nazionale non “sia sufficiente per tassare i redditi da attività lucrativa senza una presenza in Svizzera”.
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Con questa revisione – ha proseguito la consigliera federale – “ci assicuriamo che anche nel diritto nazionale esistano le basi necessarie per garantire questo gettito fiscale”.
Inoltre – ha precisato – “il disegno di legge disciplina l’obbligo per i datori di lavoro basati in Svizzera di certificare alle autorità fiscali competenti i dati salariali relativi al telelavoro dei dipendenti residenti all’estero”.
Dar prova di “pragmatismo”
Durante il dibattitoCollegamento esterno l’unico appunto è arrivato dal consigliere agli Stati ticinese Fabio Regazzi. Pur sostenendo la legge, il presidente dell’Unione svizzera delle arti e mestieri ha espresso una certa preoccupazione per il carico di lavoro che peserà sulle aziende. “Vi è l’obbligo d’istituire un importante meccanismo di controllo per garantire che non venga superata la percentuale del 40% [25% nel caso dell’Italia, ndr] di telelavoro all’estero, anche se la responsabilità è condivisa con il dipendente”, ha sottolineato Regazzi.
Il parlamentare ticinese ha auspicato che le autorità “diano prova di pragmatismo per non penalizzare i datori di lavoro che già sono confrontati con una mancanza di manodopera”.
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