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Frane e maltempo, “concatenazione di eventi eccezionali”

Una casa distrutta da una frana caduta in Val Bavona, in zona Fontana.
Una casa distrutta da una frana caduta in Val Bavona, in zona Fontana. Keystone / Michael Buholzer

Nella Svizzera italiana le spese annue per la prevenzione sono dell'ordine di 30 milioni ma le calamità restano in agguato, soprattutto con l'estremizzazione degli eventi climatici.

In Svizzera si investono cifre importanti nella prevenzione ma il rischio zero non ci sarà mai. È un po’ questo il concetto che filtra tra gli esperti e le esperte in merito ai drammatici eventi naturali che hanno colpito diverse regioni del Paese, in particolare la Svizzera italiana e il canton Vallese, dalla seconda metà di giugno a inizio luglio.

Le frane che hanno devastato Sorte, frazione di Lostallo, e fatto crollare un tratto dell’autostrada A13 in Mesolcina (Grigioni) il 21 giugno, quella caduta in Val Bavona (Ticino) il 30 giugno, le inondazioni che hanno costretto, sempre il 21 giugno, oltre 200 persone ad abbandonare nella notte le loro case a Chippis in Vallese, allagato dalle piene del Rodano e dei suoi affluenti, sono solo alcuni dei fatti riportati dalla cronaca nelle scorse settimane.  

Una volta terminato il lavoro delle squadre di soccorso e iniziati gli interventi di ripristino delle zone devastate, spuntano infatti gli interrogativi su quanto sta avvenendo a livello di meteorologia e sulla reale portata delle disastrose conseguenze che si sono verificate in questo inizio di estate del tutto inconsueto.

A fronte di questo scenario, nel quale è bene ricordare che vi sono state anche alcune vittime, potrebbe sorgere l’interrogativo riguardo all’idoneità degli strumenti e dei modelli attualmente a disposizione, in presenza di fenomeni riconducibili, almeno in parte, all’evoluzione in corso sul piano climatico.

Anno particolarmente critico

In proposito Lorenza Re, geologa nella Commissione cantonale pericoli naturali del Ticino, sottolinea, come premessa alle devastazioni provocate dalla natura, che non va trascurato il fatto che stiamo vivendo “un anno particolare e critico, con precipitazioni frequenti dallo scorso mese di settembre che hanno creato condizioni di particolare umidità del suolo e stressato il terreno”.

A questo si sono aggiunte “le abbondanti nevicate nelle quote più elevate, di cui si vedono ancora le tracce negli alvei dei corsi d’acqua, che hanno contribuito ad amplificare i processi alluvionali e i deflussi.” Un quadro che ha indubbiamente accresciuto l’instabilità idrogeologica del suolo. È insomma “piovuto sul bagnato”, in senso anche letterale.

Sul piano meteorologico i servizi responsabili stanno sviluppando il progetto ICONCollegamento esterno che dovrebbe garantire un miglioramento qualitativo delle previsioni. E sono tuttora validi i modelli relativi allo studio delle valanghe e delle traiettorie dei massi.
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Le difficoltà sono dovute piuttosto alla “concatenazione degli eventi” di cui si è appena accennato (piogge, neve, effetti di saturazione del terreno e frane). È l’estremizzazione di questi fenomeni cui stiamo assistendo negli ultimi dieci anni, e che nell’arco alpino, evidenzia la geologa ticinese, risultano accentuati, “che ci sorprende”. Ma questa estremizzazione dei fenomeni cui stiamo assistendo “sta diventando una routine”.

Fondovalle urbanizzato e sfruttato intensamente

Su questi aspetti Maurizio Pozzoni, responsabile del settore idrologia dell’Istituto scienze della Terra della SUPSI (Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana) rileva che l’incremento di eventi estremi è sicuramente rilevante, “ma stiamo pur sempre parlando di aumenti compresi tra il 10 ed il 20% (in frequenza e intensità), secondo un recente studio di MeteosvizzeraCollegamento esterno. E concorda con il fatto che i modelli in uso, ad esempio per le colate detritiche, che studiano specificamente i loro effetti sul territorio, rimangano tuttora validi.

Semmai il problema è da individuare altrove, “nei fondivalle eccessivamente urbanizzati e nel territorio fortemente sfruttato”. Per tutte queste questioni, osserva il ricercatore della SUPSI, è stato creato un anno fa un gruppo di specialisti a livello federale, all’interno della FAN (la rete professionale nazionale di esperti nel campo dei pericoli naturali gravitazionali in Svizzera), che ha lo scopo precipuo di migliorare la formazione e le conoscenze nella valutazione della pericolosità dei torrenti.

In ogni caso, sottolineano i due interlocutori, non si può certo dire che in Svizzera questi distruttivi eventi siano da attribuire a negligenze nella cura del territorio.

Investimenti annui di 30 milioni in Ticino

A livello cantonale, indica Lorenza Re, il volume degli interventi per proteggerci dai pericoli naturali ha ormai raggiunto i 30 milioni di franchi all’anno. Risorse destinate ai vari ripari, camere di raccolta delle acque, sistemi di protezione dalle valanghe e altro ancora, che sono finanziati per il 35% dalla Confederazione e per il 30-35% dai Cantoni: la quota residuale è di competenza dei Comuni, che si assumono in concreto anche la conduzione dei progetti.

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Gli investimenti sono ingenti, osserva sul punto Maurizio Pozzoni, sia sul piano della ricerca che in quello infrastrutturale (banche dati, opere di premunizione). Ma del resto è sempre “difficile dire in assoluto se la spesa sia sufficiente, lo potremo valutare solo tra 10 o 20 anni”, ossia se quanto fatto finora si rivelerà adeguato alle necessità.

Tenendo però ben presente che questi fenomeni si producono su “un territorio costellato di infrastrutture, corridoi di comunicazione e costruzioni di varia natura, per cui un certo rischio è e sarà ineliminabile”. La riflessione da fare attiene piuttosto “sul livello di rischio, come società, che siamo disposti ad accettare, tenuto conto delle esigenze contrapposte che sono presenti”.

La conoscenza capillare del territorio riguardo alle zone di pericolo resta comunque la premessa indispensabile a questo approccio basato sul rischio. E in quest’ottica c’è da notare che dagli anni ’90 del secolo scorso si è incominciato a catalogare le zone a rischio in Ticino e “possiamo dire che dal 2010-2015 circa abbiamo una buona copertura, intorno al 90-95%”, delle zone edificabili, spiega il ricercatore della SUPSI. “Ma non avremo mai un Piano delle zone di pericolo (PZP) totalmente aggiornato, poiché la situazione è in continuo divenire sia in termini di conoscenze scientifiche che anche sul piano normativo”, osserva sempre Maurizio Pozzoni.


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I documenti attualmente in vigore sono stati infatti redatti in base ai criteri definiti nell’ormai lontano 1997, “ma a breve usciranno nuovi parametri” che tengono conto dell’evoluzione delle conoscenze e degli studi che sono stati pubblicati nel frattempo.

Costruzioni fatate e norme in divenire

C’è poi da rilevare che buona parte delle costruzioni che presentano aspetti problematici sono state edificate negli anni ’70 o ’80 quando non esisteva una regolamentazione specifica. Nella maggior parte dei casi riguardanti edifici realizzati in zone dove non si sarebbe dovuto costruire, “i conflitti sono stati risolti ma non è stato sempre possibile dal momento che si tratta di delocalizzare persone e si deve piuttosto agire con altre strategie (opere di protezione o piani di emergenza)”.

Due delle quattro case investite dalla frana nella frazione di Sorte (Lostallo) si trovavano in una zona di rischio valutato come “medio”, l’area era stata studiata e il pericolo residuo era noto. Tutto questo, però, in un certo senso, fa parte dei rischi – non immediati – che, come collettività, si è deciso di accettare e che sono incomprimibili.

In questo ambito però il Ticino, annota Lorenza Re, si è dotato, a differenza di altri cantoni o altre regioni, di diversi strumenti: oltre alla cartografia dei pericoli naturali, sono previste “misure tecniche” di protezione, di cui si è accennato, che sono gestite in prima battuta dalle autorità comunali. E in caso di emergenza scattano, in seguito a un’allerta meteo, procedure speciali che coinvolgono presidi territoriali, in particolare cellule di crisi a livello comunale.

Quanto è possibile fare, insomma, è stato fatto a giudizio della rappresentante della Commissione cantonale pericoli naturali, tenuto conto della fragilità del territorio racchiuso tra vallate alpine e fiumi a regime torrentizio. Da secoli, infatti, si è costruito negli spazi ristretti dei fondivalle e in prossimità di “conoidiCollegamento esterno“.

La natura è più forte

In diversi comuni, inoltre, i piani regolatori risalgono ancora agli anni ’80. Bisogna essere coscienti, insiste Lorenza Re, che alla fine la natura è più forte e nelle regioni di montagna non abbiamo alternative se non quella di “dezonare” le superfici edificate, con tutte le implicazioni di ordine economico e sociale del caso.

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Ma spesso, conclude, basterebbe avere un po’ più di testa, evitando di montare le tende da campeggio in prossimità dei corsi d’acqua quando vi sono delle allerte meteo. Non a caso, ricorda, cinque secoli fa buona parte della Val Bavona (dove vi sono state recenti frane) fu abbandonata dai suoi abitanti, che si ritirarono a Cavergno proprio in seguito ai disastri naturali (alluvioni, valanghe, frane) che l’avevano colpita.

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