Sono passati 10 anni da quando la BNS ha abolito il tasso minimo di cambio franco-euro
La decisione della BNS fu una sorpresa.
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Dieci anni or sono, il 15 gennaio 2015, la Banca nazionale svizzera (BNS) abolì a sorpresa il tasso minimo di cambio nei confronti dell'euro, scatenando una tempesta sui mercati valutari.
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Keystone-ATS
La decisione, 10 anni fa, della BNS di abolire il cambio minimo franco-euro sorprese i mercati azionari, ma la mossa viene oggi generalmente giudicata positivamente dagli economisti: lo shock è stato superato in tempi relativamente brevi.
Chi lo ha vissuto lo ricorda come uno dei giorni più memorabili per l’economia elvetica: in quella giornata alle ore 10:30 la BNS comunicò in modo del tutto inaspettato che non avrebbe più garantito un cambio minimo dell’euro a 1.20 franchi, fino ad allora fissato – in modo unilaterale – per scongiurare un rafforzamento giudicato eccessivo del franco.
Ne derivò un uragano passato alla storia con il nome di “Francogeddon”, perché si rivelò una sorte di Apocalisse che prese in contropiede i cambisti: dopo la comunicazione l’euro precipitò sino a 0,84 franchi, cioè perse il 30% del suo valore in un lasso di tempo molto breve, con tutte le ripercussioni che ci si può immaginare anche in borsa. La scossa fu pesante pure per l’industria delle esportazioni: le associazioni imprenditoriali e i sindacati reagirono con sconcerto, mettendo in guardia da una recessione dovuta all’improvviso apprezzamento della moneta elvetica.
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All’epoca la decisione della BNS colse di sorpresa gli operatori economici, anche se per la maggior parte degli esperti era già chiaro da tempo che il tasso di cambio minimo introdotto nel 2011 nell’ambito della crisi dell’euro (Grecia, ecc.) sarebbe diventato sempre più difficile da difendere. Gli acquisti di valuta estera per parecchi miliardi effettuati dalla Banca nazionale nei mesi precedenti avevano anche suscitato crescenti critiche, ampliando a dismisura il bilancio della società a statuto speciale.
Migliaia di posti di lavoro andarono persi
Il brusco rafforzamento del franco seguito alla decisione della BNS – allora guidata da Thomas Jordan, alla testa della direzione dal gennaio 2012 al settembre scorso – comportò profondi contraccolpi nel biennio 2015-2016, in particolare per le aziende orientate all’export. Secondo le stime degli specialisti è probabile che siano andati persi, almeno temporaneamente, migliaia di posti di lavoro nell’industria meccanica, metallurgica ed elettrica.
Nel complesso però l’economia elvetica si dimostrò piuttosto solida, potendo beneficiare della struttura altamente diversificata della sua industria. Ad esempio il comparto farmaceutico, molto importante, è stato relativamente poco influenzato dal tasso di cambio, potendo puntare sui suoi prodotti unici.
“A dieci anni dall’abolizione del tasso di cambio minimo possiamo chiaramente dire che non è stata la fine del mondo”, osserva Karsten Junius, capo economista della banca Safra Sarasin, in dichiarazioni raccolte dall’agenzia AWP. Contrariamente alle aspettative, lo shock del tasso di cambio non catapultò la Svizzera in una recessione. Dopo un trimestre di andamento negativo del prodotto interno lordo (PIL) la Svizzera tornò a crescere, il che a suo avviso testimonia di una eccezionale capacità di adattamento.
Secondo il capo economista di UBS Daniel Kalt, le aziende svizzere si sono dimostrate molto flessibili e si sono adattate molto bene alla situazione del momento. È vero che molte imprese hanno dovuto sopportare perdite per trimestri o addirittura – in alcuni casi – per anni. Con il tempo, però, hanno imparato a gestire meglio le fluttuazioni valutarie.
“Una mossa assolutamente giusta”
“Oggi possiamo dire che la mossa della BNS è stata assolutamente giusta”, afferma Junius. L’istituto va elogiato per non aver aspettato oltre e aver agito prima che la Banca centrale europea (BCE) iniziasse con gli acquisti di obbligazioni. “A quel punto sarebbe diventato chiaro che il tasso di cambio minimo non poteva più essere mantenuto”. Un’uscita più tardiva sarebbe stata anche molto più costosa.
Dello stesso parere è il capo economista di Raiffeisen Svizzera, Fredy Hasenmeile. “L’abolizione del tasso di cambio minimo è stato un passo molto coraggioso, ma anche assolutamente corretto: i risultati parlano da soli”, dichiara. Da allora il tasso di cambio reale si è rivalutato solo leggermente. L’industria svizzera ha retto bene e, nonostante i continui cambiamenti strutturali, oggi impiega più personale di allora. E soprattutto: l’industria elvetica è rimasta competitiva, in parte grazie al “costante programma di fitness” che il franco forte impone alle aziende. “Uno sguardo alla Germania mostra cosa succede quando un’economia non è più sottoposta alla sfida di altre che hanno una moneta debole”, conclude l’esperto.
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