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Sud Sudan, si combatte ancora, oltre 200 morti

La capitale Giuba è da 5 giorni centro degli scontri tra governativi e ribelli; esponenti di entrambe le fazioni tentano una mediazione

Questo contenuto è stato pubblicato il 11 luglio 2016 - 14:15

Cresce la preoccupazione della comunità internazionale per le violenze scoppiate in Sud Sudan, tra le forze fedeli al vicepresidente Machar e quelle vicine invece al presidente Kiir.

Si continua a combattere anche nella capitale Giuba, dove si tenta una mediazione per mettere fine a ostilità che in pochi giorni hanno provocato almeno 200 morti.

Ancora spari. Ancora esplosioni a Giuba, da 5 giorni al centro degli scontri tra le forze fedeli al presidente Salva Kiir e quelle che appoggiano il primo vicepresidente Machar.

Alcuni membri del governo e militari del gruppo ribelle, tentano però di riportare la calma: "Condanno quel che è successo negli scorsi giorni", ha detto Dau Atorjong Nyuol, generale del gruppo ribelle SPLA. "Credo nella pace ed è per questo che mi trovo a Giuba. Chiedo dunque alle mie forze, l'SPLA nell'opposizione, di lavorare per la pace. Dichiaro che da oggi le mie forze fanno parte delle forze governative e non le combatteranno".

"Colore che si confrontano da alcuni giorni", ha dichiarato da parte sua il ministro delle miniere Taban Deng Gai, "sono i figli e le figlie di questo paese. Abbiamo bisogno di loro e abbiamo bisogno di loro vivi".

Dichiarazioni congiunte, mentre giunge la condanna da parte del Consiglio di sicurezza dell'ONU, che chiede la cessazione delle violenze e degli attacchi contro il personale delle Nazioni Unite. Un casco blu di nazionalità cinese è rimasto ucciso domenica sera per un colpo di mortaio.

A parlare, intanto, sono però ancora le armi. Che continuano a mettere in pericolo il già fragile accordo di pace siglato lo scorso agosto tra le due fazioni rivali.

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