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Lavorare gratuitamente, un pericolo cui siamo soggetti tutti

Smartphone con applicazioni a vista
Lavoro su chiamata, freelance, flessibile, temporaneo e chi più ne ha più ne metta. © Keystone / Christian Beutler

Rispondere alle e-mail fuori dall’orario di lavoro, preparare progetti o preventivi per concorsi che non andranno in porto, saltare la pausa pranzo per finire un compito. A chi non è capitato... ma dov’è il limite e quali sono i rischi? Ne abbiamo parlato con un esperto.

L’occupazione flessibile porta alcuni vantaggi ai lavoratori ma in determinati casi anche molta precarietà che forse ancora si tende a sottovalutare. La pandemia ha cambiato le abitudini di molte persone, che siano queste legate alla gestione del tempo, del luogo di lavoro o alle condizioni dello stesso.

Si può dire che gli ultimi due anni e mezzo hanno dato una vorticosa accelerata ad alcune tendenze già presenti nel mondo del lavoro, ma il cui consolidamento nicchiava ad arrivare.

Ecco quindi che il telelavoro, il lavoro a tempo parziale, gli stage formativi, il lavoro indipendente, eccetera, da pratiche eccezionali (o limitate a determinate categorie come ad esempio le “mamme-lavoratrici”) sono diventate in molti casi la norma, trovando una propria collocazione nel mercato del lavoro.

La fase di consolidamento di queste forme di impiego, come spesso accade, ne fa però emergere anche i limiti e le criticità.

Ci si destreggia quindi tra la libertà data da un impiego indipendente o su chiamata e l’instabilità sociale che questo tipo di ingaggi prevedono rispetto al contratto fisso. Tra il poter lavorare a tempo parziale e allo stesso tempo garantire al datore di lavoro di non “rimanere indietro” rispetto ai colleghi, mostrandosi così disponibili ben oltre la propria percentuale effettiva.

Copertina del libro.
“La gratuità si paga – Metamorfosi nascoste del lavoro” di Spartaco Greppi, Samuele Cavalli e Christian Marazzi (edizioni Casagrande). tvsvizzera.it

“Il tempo di vita è stato colonizzato, privatizzato, messo a profitto dallo rispondere alle e-mail, alle telefonate o portandosi il lavoro a casa”, si legge nel saggio “La gratuità si paga – Metamorfosi nascoste del lavoro”Collegamento esterno di Spartaco Greppi, Samuele Cavalli e Christian Marazzi (edizioni Casagrande). 

Un fenomeno allo stesso tempo “normale” e nascosto nell’invisibilità sociale.

Ne abbiamo parlato con uno degli autori, Spartaco Greppi, economista e responsabile del Centro di competenza lavoro, welfare e società della Scuola universitaria della Svizzera italiana (SUPSI).

Professor Greppi, il libro raccoglie diversi esempi e diverse storie, quali sono i tipi di lavoratori e lavoratrici o i tipi di lavoro più soggetti di altri al lavoro gratuito?

Chiunque vi è soggetto. Chi lavora a tempo pieno o parziale, mettendo a disposizione la propria disponibilità a farlo dopo il proprio turno, tra un turno di lavoro e un altro. Sconfinando o aspettando accanto al proprio dispositivo digitale, smartphone o tablet, o mettendo a disposizione il proprio tempo senza una effettiva contropartita monetaria.

Tra i più soggetti al lavoro gratuito ci sono i ciclofattorini o i motofattorini di Deliveroo, di Uber Eats, eccetera, gli autisti di piattaforme come Uber e Lyft, chi svolge lavori di economia domestica di Helping, oppure il cosiddetto crowdwork.

Il lavoro gratuito è dunque trasversale ai settori economici e alle professioni, anche se ci sono categorie particolarmente esemplificative delle tendenze in corso. Pensiamo a quelle categorie di indipendenti che lavorano come freelance, costantemente collegati alla rete per aggiudicarsi un mandato, con tempi di attesa tra un ingaggio e l’altro spesso lunghi e non remunerati, spesi elaborando nuovi progetti in risposta a concorsi onerosi, non sempre rimborsati, ma pienamente produttivi.

Ci può fare qualche esempio?

La natura trasversale del lavoro gratuito è il frutto dell’estensione del modo di lavorare e di organizzare la produzione tipica della gig economy (basata sul lavoro flessibile, temporaneo, ndr.). Ossia il work-on-demand (o lavoro su chiamata, ndr.) via app, che mette in relazione un cliente e un/a lavoratore/lavoratrice: ciclofattorini di Deliveroo, di Uber Eats, eccetera, autisti di piattaforme come Uber e Lyft, altre attività intermediate da una piattaforma digitale, come nel caso delle attività dei lavori di economia domestica di Helping; oppure il cosiddetto crowdwork, ossia il subappalto di un lavoro a una vasta platea di persone su Internet (la folla, appunto), sotto forma di gara aperta, il cui esempio paradigmatico è Amazon Mechanical Turk.

Il telelavoro tende a estendere i tempi di lavoro anche al di là di quelli contrattualmente fissati, erodendo i confini e mettendo al lavoro la vita stessa.

Oltre a una remunerazione modesta, a volte di pochi centesimi, come nel caso di micro-attività come etichettare (“taggare”) un’immagine o tradurre una didascalia, queste attività digitali producono dati personali e comportamentali di cui si appropriano gratuitamente le piattaforme. La produzione di questi dati e il valore aggiunto che essi generano, va ben oltre i perimetri della gig economy così come definita prima, spingendo i confini del lavoro digitale fino ad abbracciare virtualmente qualsiasi attività svolta in rete, anche quelle ricreative. Si pensi agli youtuber che generano introiti pubblicitari considerevoli ma di cui ricevono una parte modesta, se non nulla. 

Abbiamo analizzato in precedenza, sempre appoggiandoci a ricerche della SUPSI, come pure il telelavoro, in alcuni casi, rischia di penalizzare il lavoratore e la lavoratrice. Non è un paradosso che in entrambi i casi si tenda a considerare l’ingaggio tout court a vantaggio di chi accetta il lavoro?

Più che di paradosso parlerei di un’evoluzione che avvantaggia coloro che possono permettersi di lavorare da remoto, traendone beneficio in termini di maggiore flessibilità e di maggiore possibilità di occuparsi di compiti extralavorativi, e coloro che devono lavorare in presenza e che non possono beneficiare delle stesse condizioni di flessibilità, per i quali assentarsi dal lavoro – fosse anche per accudire i figli malati o accompagnarli dal medico – significa prendere un congedo e attingere ai giorni di vacanza a cui si ha diritto. Il telelavoro tende a estendere i tempi di lavoro anche al di là di quelli contrattualmente fissati e remunerati nell’ambito di un ingaggio, erodendo i confini e mettendo al lavoro la vita stessa.

Parliamo di un tipo di lavoro sommerso e non riconosciuto, proprio come si è iniziato a parlare del lavoro domestico gratuito ormai decenni fa. Anche questa variante è destinata a rimanere non riconosciuta per decenni come è stato ed è il caso del lavoro femminile? Oppure questa che concerne tutti, uomini e donne, giovani e meno giovani, può essere l’occasione per affrontare tutte le forme di gratuità?

Il lavoro domestico e familiare, come le attività di volontariato e gli aiuti a parenti e conoscenti bisognosi di cure e assistenzaCollegamento esterno sono forme di gratuità che conosciamo bene, perché sono sempre esistite e sono addirittura indispensabili al funzionamento della nostra società. Tant’è vero che gli istituti nazionali di statistica ne calcolano il volume e ne stimano il valore, a riprova della loro natura produttiva.

“Non si esclude che in futuro venga riconosciuto anche per altre forme di gratuità lavorativa un reddito commisurato al tempo di vita produttivo, per esempio attraverso un reddito di base incondizionato”.

L’Assicurazione vecchiaia e superstiti (AVS) riconosce agli assicurati degli accrediti per compiti educativi e di assistenza, una forma di reddito figurativo che insieme ad altri elementi contribuisce a determinare l’ammontare della futura rendita. Un riconoscimento parziale del lavoro svolto, per il quale si è dovuto aspettare decenni, ma che stabilisce l’importanza del lavoro domestico e familiare per il benessere individuale e collettivo.

Non si può escludere che in futuro si riconosca che il lavoro gratuito si è esteso al tempo di vita. Virtualmente ogni atto della vita tende a iscriversi in una rete di produzione di valore attraverso la fornitura di dati personali e informazioni comportamentali e la messa a disposizione permanente del proprio tempo. Non a caso si parla di “biocapitalismo”, per sottolineare la messa al lavoro della vita, del bios, in quanto tale. Come già avvenne in parte (decisamente molto in parte) per il lavoro domestico e familiare, non si deve escludere che si riconoscerà anche per tutte le altre forme di gratuità lavorativa un reddito commisurato al tempo di vita produttivo, per esempio attraverso un reddito di base incondizionato.

Nel XIX e nel XX sec., l’evoluzione del tempo di lavoro nelle attività remunerate è cambiato in maniera significativa in Svizzera, ma senza per forza svilupparsi di pari passo con l’aumento della produttività. Se da un lato, la separazione tra tempo di lavoro e tempo libero è inizialmente stata netta e la misurazione del tempo precisa, oggi si vive un maggiore ibridismo riguardo a questa distinzione. Se l’introduzione di vacanze pagate non ha vissuto particolari ostruzioni, non si è verificato lo stesso con la diminuzione dell’orario di lavoro, che è invece stata particolarmente osteggiata e, nel 1924, si è addirittura andati al voto popolare per impedire l’estensione dell’orario di lavoro dalle 48 alle 54 ore settimanali. I dettagli su questa evoluzioneCollegamento esterno nel Dizionario storico della Svizzera.

Quali scenari ci potrebbero aspettare in futuro riguardo a queste dinamiche di fragilizzazione del lavoro, si può pensare ad un adeguamento normativo o sarebbe dannoso?

Ritengo che si debba andare nella direzione di un’assicurazione generale del reddito e della perdita di guadagno, pensando in particolare a quelle figure professionali come i freelance o i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo, che lavorano a intermittenza, spesso con remunerazioni modeste e altrettanto modesti diritti sociali, pensionistici, ma non solo.

“Lavorare gratuitamente non è mai legittimo”.

Occorre poi seriamente affrontare la questione del riconoscimento del contributo di ognuno e ognuna alla produzione di valore attraverso la messa a disposizione di informazioni personali e dati comportamentali a qualsiasi livello, già al momento stesso in cui si accede alla rete. I dati sono lavoro, come sottolineano Eric Posner e Glen Weyl nel loro libro intitolato “Radical markets”Collegamento esterno, nel quale propongono nientemeno che un “Reddito da lavoro-dati”, e il valore sta nei dati, come scrive Martin Ford nel suo ultimo libro dedicato al dominio dei robot.

Come si stanno comportando gli altri Paesi, ci sono legislazioni specifiche al riguardo?

Non ci sono grandi differenze tra Paesi e non ci sono legislazioni specifiche ad altri Paesi. Il lavoro gratuito sta (ri)emergendo in tutte le sue forme, vecchie e nuove, in tutti gli Stati. E in tutti il lavoro gratuito si sta (ri)affermando come una negazione del lavoro, una svalorizzazione. 

Ci sono situazioni nelle quali il lavoro gratuito è legittimo?

Lavorare gratuitamente non è mai legittimo. Un lavoro produce ricchezza, valore, e questo va riconosciuto. È il riconoscimento del valore del lavoro, non la sua legittimità, che è in gioco.

In base a dati fornitiCollegamento esterno nelle scorse settimane dall’Ufficio federale di statistica (UST), nel 2020, il 10% dei salariati lavorava in modo atipico: tra questi, il lavoro a chiamata è stata la forma di impiego più frequente (5,1% dei dipendenti), seguita da contratti di durata inferiore a un anno (3,1%) e da bassi tassi di occupazione (2,3%). Il personale a prestito, inoltre, rappresentava l’1,2% di tutte le persone salariate.

Queste forme di impiego atipiche, scrive ancora l’UST, sono diffuse in maniera superiore alla media nella fascia di età dai 15 ai 24 anni (dove riguardano il 26,9% delle persone salariate), nell’agricoltura e selvicoltura (25,2%) e nelle professioni non qualificate (24,4%). Inoltre a trovarsi in questa situazione occupazionale sono più spesso le donne (12,5%) rispetto agli uomini (8%).


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