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Schiaffone britannico all’U.E. ora la Svizzera da che parte starà?

Che ne penserebbe Churchill? Reuters

"Maledizione, un brutto giorno per l'Europa", twitta immediatamente Sigmar Gabriel, vice-cancelliere tedesco. Sono passati pochi minuti dall'annuncio che la Gran Bretagna ha deciso di divorziare dall'UE, e la rabbiosa reazione del numero due della "grande coalizione" di Berlino dà tutto il senso delle forti inquietudini di un'Unione che, con il primo divorzio di uno dei suoi partner (e non certo minore, dato il suo peso economico), si ritrova ora sull'orlo del baratro, di una crisi stavolta davvero senza precedenti, e che potrebbe rivelarsi rovinosa.

La (debole) maggioranza degli elettori del Regno Unito -che offre comunque una lezione di democrazia, anche con un’alta affluenza alle urne- celebra dunque quella che il leader della Brexit, il nazionalista Nigel Farage, definisce “il nostro Indipendence Day”. In realtà, nell’Europa la Gran Bretagna stava da sempre almeno con un piede fuori. Ma il valore simbolico di quanto avvenuto è comunque pesante. Molti analisti diranno ora che la risicata maggioranza che ha deciso lo storico strappo ha votato con la pancia (paura dell’immigrazione, riconquista del primato nazionale, esaltazione della propria insularità) e non con la testa e il raziocinio di chi deve pensare anche alle conseguenze della propria decisione, soprattutto sul piano economico interno: l’immediato crollo della sterlina potrebbe essere solo l’avvisaglia di un generale impoverimento del paese, fra diminuzione del Pil, crescita della disoccupazione, aumento del costo della vita, fuga dalla City.

In realtà con la secessione britannica dall’UE si entra letteralmente in “terra incognita”. Innanzitutto nello stesso Regno Unito: David Cameron, che aveva promesso il referendum più che altro per garantirsi la vittoria nelle elezioni politiche dello scorso anno, e che invece ha profondamente lacerato il suo partito conservatore ha dato le sue dimissioni; e soprattutto incognite sulla sorte della stessa unità nazionale, visto che Scozia e Irlanda del Nord hanno votato massicciamente per il “remain” in Europa, e potrebbero reagire con spinte centrifughe.

E poi, naturalmente, “terra incognita” anche sul piano internazionale. Il mondo globalizzato e la persistenza della crisi economica non avevano certo bisogno di un altro terremoto, che ha subito affossato le Borse dall’Asia all’America al Vecchio Continente. Deve preoccuparsi anche la Svizzera, che rischia un nuovo, pesante rafforzamento del franco, con pesanti ripercussioni sulle esportazioni elvetiche, e con una Banca Nazionale costretta a massicci interventi (acquisti di moneta) per contenere gli effetti della Brexit sulla propria economia.

Ma è duplice, anche contraddittorio, lo stato d’animo del nostro Paese. Se da una parte, e nell’immediato, c’è infatti la preoccupazione del “franco forte”, dall’altra potrebbe anche prevalere una certa soddisfazione e, a media scadenza, una certa speranza politica: quella di non dovere più battersi da sola nel rapporto con l’Unione Europea: insomma, molti riterranno che un alleato come la Gran Bretagna, con cui aprire anche una nuova stagione economica, potrebbe far comodo, molto comodo per negoziare con Bruxelles, per non ritrovarsi isolati, e alternativamente, per rilanciare e rinvigorire una nuova versione dell’Area di Libero scambio.

Bisognerà vedere come allo schiaffo britannico reagirà l’Europa, che secondo gli statuti UE (articolo 50) dovrà concretizzare entro due anni l’uscita della Gran Bretagna, un periodo di grande tensione e confusione. Prevarrà nell’UE la linea dura, cioè di chi ritiene che la replica debba essere categoricamente di chiusura anche per evitare che altri Paesi euroscettici siano tentati dall’esempio inglese, in una sorta di effetto domino? O può aver la meglio la linea soft, che terrebbe conto dell’importanza economica del Regno di sua Maestà e dunque della necessità di individuare comunque qualche forma di compromesso per il futuro rapporto con il “mercato unico”?

“Chi è fuori è fuori”, avevano minacciato alla vigilia del referendum il presidente della Commissione Junker, e soprattutto il superministro tedesco delle finanze Schäuble; mentre da parte sua il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, assicurava che era già pronto un “piano B” per far fronte al divorzio britannico e alla conseguente tensione sui mercati. Ma questo avveniva prima. Prima che il sisma della Brexit scuotesse tutto. Con conseguenze ancora tutte da valutare. Nel bene e nel male, anche per l’interessata Svizzera.

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