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Il Governo svizzero non ne vuole sapere di una norma sui pentiti di mafia

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Attualmente è solo in fase processuale che un giudice può concedere sconti di pena a un pentito. © Keystone / Martial Trezzini

Introdurre una norma sui collaboratori di giustizia sul modello di quanto si fa in Italia? Per il Consiglio federale non se ne parla.

A rilanciare il dibattito era stato in giugno il nuovo procuratore generale della Confederazione Stefan Blättler.

“La mafia è una società chiusa. Come volete penetrarla? Con un agente sotto copertura di Berna che non parla dialetto, è biondo e ha gli occhi azzurri? Potete scordarvelo. I collaboratori di giustizia ci aiuterebbero a combattere la mafia”, aveva dichiarato Blättler in un’intervista al Tages-Anzeiger.

Secondo il procuratore generale della Confederazione, dare degli sconti di pena è sì moralmente ingiusto. Tuttavia, proseguiva, “abbiamo la scelta se morire in bellezza non facendo nulla, oppure fare delle concessioni, anche se colpiscono il nostro senso di giustizia”.

“I collaboratori di giustizia – aveva poi precisato – non devono essere assolti. Ma se hanno un’alternativa tra cinque o 15 anni di carcere, possono anche decidere di parlare”.

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A tradurre in atto parlamentare l’idea avanzata da Stephan Blättler è stato il consigliere nazionale liberale radicale ticinese Alex Farinelli, che ha presentato un postulatoCollegamento esterno nel quale chiedeva al Governo di stilare un rapporto per approfondire la possibilità di creare una norma sui pentiti di mafia.

“L’Italia […] ha introdotto una norma sui pentiti di mafia già nel 1991 su input del giudice antimafia Giovanni Falcone, il quale aveva capito l’importanza di tale strumento per l’autorità inquirente – precisava Farinelli. Tale norma, che negli anni ha subito alcune modifiche senza però cambiamenti sostanziali, è tutt’ora in vigore ed è ritenuta uno degli strumenti più importanti per la lotta alla mafia. In questo contesto deve quindi essere esaminata la necessità di adeguare la legislazione vigente con una norma sui pentiti di mafia”.

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La risposta al postulato del deputato ticinese è giunta mercoledì. In sostanza, secondo il Governo la situazione va bene così com’è.

In particolare, il Consiglio federale sottolinea cinque punti.

  • Ricompensare con l’impunità una persona che ha commesso e confessato reati gravissimi soltanto perché fornisce informazioni entrerebbe in contraddizione con il principio dell’uguaglianza giuridica e con lo spirito del diritto penale basato sulla colpa.
  • Il mafioso pentito beneficerebbe di un trattamento di gran lunga più favorevole rispetto a un “normale” reo confesso.
  • Vi è il rischio di sviamento della giustizia: “Ci si chiede come stabilire se le informazioni prospettate rispecchiano effettivamente i fatti”.
  • Sarebbe impossibile spiegare alla popolazione e soprattutto alle vittime della mafia come mai persone che hanno commesso od ordinato reati gravissimi) possano ottenere l’impunità cooperando.
  • Acquisire informazioni assicurando l’impunità, equivarrebbe a capitolare dinanzi alla mafia.

“Non è una richiesta che nasce dal nulla”

“È una risposta che mi ha un po’ sorpreso”, reagisce Alex Farinelli. “Il postulato chiedeva solo di approfondire una tematica, al fine di avere gli elementi necessari per stabilire se sia necessario o meno legiferare”.

“Non è una richiesta che nasce dal nulla”, prosegue il deputato ticinese, sottolineando, come si diceva all’inizio, che sono stati proprio coloro che lavorano sul campo, ovvero la procura federale, a lanciare il dibattito.

Dal Governo, Alex Farinelli si sarebbe aspettato almeno che valutasse i pro e i contro di una simile misura. “Ho un po’ l’impressione – aggiunge – che la risposta provenga da qualcuno che non ha ancora focalizzato bene il fenomeno e che sia rimasto a un’immagine della mafia di altri tempi”.

Uno strumento c’è già, ma è insufficiente

Nella sua risposta, il Governo sottolinea inoltre che in Svizzera vi è già uno strumento che permette di ridurre la pena nel caso in cui l’imputato collabora con la giustizia, ovvero la cosiddetta piccola normativa sui pentiti.

Il capoverso 4 dell’articolo 260ter del Codice penale svizzero prevede infatti che “il giudice può attenuare la pena se l’autore si sforza di impedire la prosecuzione dell’attività dell’organizzazione”.

Questo strumento è però, a detta di molti, insufficiente. “Il problema – dichiarava nel 2017 al giornale La Regione l’allora parlamentare federale ticinese Giovanni Merlini, che aveva sostenuto una mozione per introdurre una normativa sui pentiti – è che l’articolo non è mai stato applicato”.

Per un semplice motivo: “Il pentito vuole avere una certa sicurezza già all’inizio dell’inchiesta sul suo destino giudiziario, vuole da subito sapere quali vantaggi gli porterà una collaborazione in termini di sconto di pena e misure di protezione – affermava Merlini. Il fatto di collaborare con la giustizia espone infatti la sua persona e i suoi familiari al rischio di rappresaglia da parte dell’organizzazione criminale dalla quale s’è dissociato. Se poi si tiene conto del fatto che un’inchiesta su organizzazioni criminali può durare anni, è comprensibile che il pentito voglia subito garanzie in merito a quelle che saranno le misure di protezione delle quali potrà giovarsi. È dunque all’inizio dell’inchiesta che il Ministero pubblico deve potergli prospettare uno sconto di pena, anche se – beninteso – ciò non sarà vincolante per il giudice al processo. Farlo solo alla fine, in sede di tribunale, diventa controproducente perché scoraggia ogni collaborazione”.



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