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La nuova immigrazione italiana in Svizzera

La migrazione italiana in Svizzera è cambiata ma non si è mai interrotta

La frontiera di Como-Chiasso
© Keystone / Ti-press / Gabriele Putzu

Le frontiere sopravvivono come entità burocratica ma sempre meno nella percezione delle popolazioni di confine. Al Forum per il dialogo italo-svizzero si sono scandagliati i falsi miti che riguardano il fenomeno dell'immigrazione da sud.

La vecchia narrativa dell’emigrazione italiana in Svizzera è ormai superata. Le nuove esigenze sociali e l’evoluzione della tecnologia hanno rivoluzionato il mercato del lavoro e anche l’apporto della manodopera del Belpaese nella Confederazione che resta – nonostante i numeri relativamente esigui rispetto ad altri grandi Paesi – la quarta destinazione degli espatriati e delle espatriate provenienti dall’Italia si è modificato nel tempo.

Di questo hanno riflettuto nello scorso fine settimana economisti/e, accademici/che e amministratori/trici a Zurigo nel quadro del sesto Forum per il dialogo tra Italia e Svizzera.

Flussi sempre intensi

I flussi tra i due paesi restano intensi, soprattutto quelli dal Meridione, ma la realtà – è stato convenuto nel corso dei lavori – si presenta sfaccettata ed estremamente eterogena. Sia per quel che riguarda i livelli di formazione, che un tempo erano piuttosto uniformi ed erano indirizzati verso l’industria e il settore delle costruzioni, sia riguardo alla provenienza e le forme di lavoro (distaccati, notificati, frontalieri o soggiornanti-residenti). Con i conseguenti nuovi rischi incentivati dai rapidi cambiamenti sul mercato che tendono a penalizzare le figure professionali meno qualificate.

Sulla “complessità del fenomeno migratorio italiano” che è conosciuto per alti tassi di emigrazione ancora negli anni recenti – in particolare dalla metà del primo decennio del 2000 – e non è uniforme in tutte le regioni, ha insistito Paolo Barcella, docente di storia contemporanea a Bergamo.

La falsa narrativa sui salari

Una delle prime constatazioni su cui è stato riflettuto – che per certi versi non pare del tutto scontata – è che non si intravvedono segnali di pressione sui salari attribuibili al fenomeno migratorio, ha osservato il coordinatore del gruppo interdisciplinare Marco Salvi (Avenir Suisse). In Ticino, dove l’influenza del frontalierato italiano è evidente per la sua specifica struttura economica e geografica, le retribuzioni mediane dei residenti – assicurano gli economisti – “aumentano addirittura di più” che nel resto della Confederazione (ma in termini assoluti restano al di sotto della media nazionale, ndr). Anche se a questo riguardo ci sono importanti differenze in merito alle modalità di lavoro dei migranti (status differenti di lavoratori distaccati, notificati, frontalieri).

Una volta individuate e analizzate le finte narrazioni che accompagnano il fenomeno migratorio occorre però fare un passo in più per smitizzare alcune leggende. E su questo aspetto sono state avanzate alcune proposte. Innanzitutto è necessario modificare le percezioni che, come detto, conducono a ragionamenti errati su cui si innestano questioni identitarie.

È ad esempio possibile inquadrare il concetto di frontalierato su un piano di economia regionale, trascendendo dalla frontiera esistente che nella pratica quotidiana ha una rilevanza accessoria. A nessuno infatti verrebbe in mente di considerare un o una pendolare nel Canton Argovia o nella periferia di Londra come una persona che ruba il lavoro ai residenti di Zurigo o della City. Il discorso inevitabilmente cambia se il o la protagonista è un comasco impiegato a Lugano.

Una frontiera che non esiste più

“C’è la necessità di fare emergere i numeri concreti sulle questioni di integrazione, di prospettive professionali, sociali ed economiche affinché si possa fornire all’opinione pubblica un quadro più realistico delle effettive dinamiche”, ci dice Toni Ricciardi, storico dell’Università di Ginevra. Anche perché nella percezione dei comuni cittadini e cittadine di molte realtà, come quella ginevrina dove il tram va dal centro di una città al centro di un’altra nello Stato vicino, “la frontiera di fatto non esiste più”.

Occorre quindi, propone l’accademico di Ginevra, adottare uno schema più vasto, “europeo” per analizzare questa frontiera anomala che è cambiata negli ultimi decenni e trovare forse delle soluzioni a problemi che esistono realmente: le persone, aggiunge lo storico delle migrazioni, “non nascono né insofferenti, né xenofobe, né razziste” e quando si manifesta insofferenza “significa che ci sono delle difficoltà che vanno indagate e capite”.

Certo è che se c’è un mercato del lavoro che è disponibile ad impiegare quella manodopera, osserva Paolo Barcella, significa che esso stesso ritiene utile e opportuno assorbirla. Quali siano poi gli effetti sociali ed economici complessivi che si producono, aggiunge lo storico, è un tema di discussione aperto: “Il motivo per cui si è generata conflittualità va indagato a partire da dinamiche che non riguardano solo il mercato del lavoro” ma anche altri ambiti, come ad esempio quello dei trasporti. “Vogliamo realizzare un sistema integrato fra le regioni di confine, a che condizioni? Qui emerge tutta una serie di altre questioni” che vanno affrontate seriamente, conclude Paolo Barcella.

Il quadro normativo elvetico non aiuta

Ma la di là degli aspetti sociali e ideologici andrebbero anche corrette le misure adottate da Berna nell’attuazione dell’iniziativa contro l’immigrazione di massa votata dall’elettorato nel febbraio 2014.

È interessante il fatto, illustrato nel corso dell’incontro, che dalle ricerche effettuate recentemente sia emerso che le restrizioni adottate a tutela di residenti – che scattano automaticamente in caso di superamento di una certa soglia di disoccupazione in settori specifici – producono effetti contrari, nel senso che finiscono per ritorcersi sugli stessi residenti.

Analogamente si è riscontrato che le regole rigide in tema di naturalizzazione sono anch’esse un elemento che frena l’integrazione sul mercato del lavoro, penalizzando così la stessa economia.

Il nodo del riconoscimento dei titoli di studio

“È dimostrato scientificamente e ne abbiamo discusso”, precisa in proposito Toni Ricciardi, che la teoria ‘prima i nostri’, cifre alla mano, “è fallimentare”. Occorre invece equiparare tra loro le regioni di confine che sono realtà particolari, come quella del Canton Ticino che è incuneato nella Lombardia: “Uniformare dinamiche, abbattere divisioni, equiparare stipendi, diritti sociali ed economici sono probabilmente le uniche soluzioni per identificare e creare un unicum in queste aree di confine che alla fine sono la stessa cosa”.

Un altro fattore che è stato evidenziato e che è di ostacolo all’accesso degli stranieri al mercato del lavoro elvetico è costituito dalle lacune ancora esistenti nel riconoscimento dei titoli di studio e formazione (soprattutto nei rami della sanità, dell’insegnamento e dell’artigianato) che impediscono spesso alle persone immigrate, cercate dagli stessi datori di lavoro, di occupare impieghi in linea con le loro qualifiche professionali, con tutte le conseguenze distorsive, anche di tipo salariale, sul mercato locale che ne derivano (dumping).  

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