Chi, a tavola o durante una conversazione noiosa o scomoda, non ha mai sbirciato il cellulare, scagli la prima pietra. Tutti, almeno una volta nella vita, ci siamo resi colpevoli di phubbing, come viene chiamata l’abitudine di ignorare le persone presenti preferendo interagire con lo schermo.
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Un utilizzatore medio tocca il suo telefonino 2’617 volte. Un dato preoccupante, soprattutto se si pensa che molte persone provano u sentimento di ansia e smarrimento quado non hanno lo smartphone a portata di mano. “Non è una patologia. È un’abitudine, un comportamento che causa diversi problemi e porta l’altro a sentirsi escluso”, spiega la psicoterapeuta Elena Scaffidi.
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Il phubbing, spesso, capita quando ci si incontra in famiglia: nonni, genitori e figli, nonostante un’educazione simile, hanno abitudini diverse. Push inviati dalle app di messaggistica, social media e di notizie del giorno ci portano a prendere il telefono in mano un centinaio di volte al giorno. Si è insomma giunti a una situazione preoccupante, secondo il sociologo Sebastiano Caroni: “È la vita reale a disturbare quella virtuale”. Anche se, comunque, bisogna tenere conto del fatto che c’è una differenza generazionale: i giovani in gruppo usano il cellulare in maniera diversa e non sempre si isolano facendolo.
Distrazioni a cui è difficile resistere e che sempre di più ci allontanano dalla vita reale: oltre a non guardare più le persone per strada, non si sta più un attimo senza fare qualcosa e ascoltare qualcuno per oltre due minuti diventa difficile. Nasce nelle utilizzatrici e negli utilizzatori dello smartphone la necessità di essere sempre con la mente attiva, costantemente performanti e non accettare nessun momento di lentezza o conversazioni poco stimolanti. Una paura della noia e del vuoto che viene attutita dalla presenza del telefono.
Una ragione per questo comportamento c’è: ogni notifica che vediamo sul telefono ci provoca scariche di dopamina, l’ormone della motivazione e del piacere. Da qui il bisogno irrefrenabile del cellulare.
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