I cambiamenti climatici modificano le abitudini degli animali
A causa del riscaldamento globale sono sempre di più gli animali che devono spostarsi in alta montagna per poter sopravvivere. L'esempio del Parco naturale Adamello Brenta, in Trentino.
A causa di primavere sempre più precoci, quando all’inizio di luglio i piccoli di stambecco iniziano lo svezzamento trovano il foraggio già in parte secco, privo di quelle sostanze nutritive necessarie per accumulare grassi ed affrontare poi il primo, difficile inverno.
Sono quindi sempre di più i capretti che non sopravvivono: nel parco del Gran ParadisoCollegamento esterno, negli ultimi 15 anni, solo il 35% dei nati ce l’ha fatta, rispetto al 58% degli anni 1981-1990.
Lo studio, realizzato dai ricercatori del parco in collaborazione con l’Università del Québec, in Canada, mostra anche come da anni il tasso di mortalità dei piccoli superi il tasso di individui giovani che arrivano alla fase adulta, provocando il costante calo della popolazione totale.
Il caso dei piccoli stambecchi sulle Alpi occidentali italiane indica come i cambiamenti climatici, e nello specifico l’innalzamento medio delle temperature, ha sulla natura e gli ecosistemi effetti non sempre visibili, non sempre immediati né chiari, ma comunque profondi e sul lungo periodo anche irrecuperabili.
Il clima cambia, le temperature e gli eventi climatici estremi costringono gli animali a cambiare abitudini, ad adattarsi a nuovi habitat o a cercarne di nuovi. Qualche specie resiste, qualche altra cerca nuovi spazi dove insediarsi, altre ancora sono condannate all’estinzione.
Lo diceva anche Charles Darwin, 200 anni fa, che però visse in un’epoca in cui la rivoluzione industriale era appena esplosa, i gas serra di origine antropica non erano ancora evidenti e la crisi climatica non esisteva.
Gli animali si spostano in alto
Se guardiamo dalla parte opposta dell’arco alpino, sulle catene centro-orientali, la situazione non è migliore. E sono proprio i ricercatori del Parco naturale Adamello BrentaCollegamento esterno, in Trentino, che confrontando dati degli ultimi 25 anni su rilievi climatici, faunistici e floristici, hanno scoperto che gli animali selvatici stanno cercando rifugio a quote più elevate, alla ricerca di temperature medie che in passato trovavano più in basso, idonee ai loro ritmi biologici.
La lepre alpina, la volpe e la marmotta sono animali la cui presenza, negli ultimi 20 anni, è stata rilevata più frequentemente ad altitudini maggiori anche di 300 metri.
Ci sono poi casi più specifici, come quello della pernice bianca, che tra gli uccelli alpini è un perfetto esempio di specie in forte declino a causa di fattori ambientali, in particolare per la riduzione di copertura nevosa e perdita di habitat. Uno studio effettuato sulle Alpi svizzere ha infatti dimostrato che la popolazione di pernice ha avuto una significativa diminuzione negli ultimi 20 anni, anche a causa del cambiamento climatico.
A un centinaio di metri più in alto rispetto al passato (1’400-1’800 metri) sembra essersi ormai insediato il gallo cedrone, che come la pernice bianca è “un relitto glaciale”, uno dei rari animali rimasti sulle Alpi dopo la fine dell’ultima glaciazione, quella di Würm.
Per le sue abitudini ecologiche, questo grosso uccello dal comportamento solitario e dall’inconfondibile canto “strozzato” è considerato un indicatore biologico degli ambienti forestali di media montagna, perché solitamente il numero di esemplari si riduce quando l’ambiente in cui vive si modifica o intervengono fattori che violano gli equilibri del suo ecosistema.
Si alzano le temperature, cala la biodiversità
Uno studio della Fondazione Edmund Mach ha rivelato che nel Trentino occidentale, negli ultimi 20 anni, nei mesi invernali la temperatura media è aumentata di 1,5 gradi.
Un dato superiore a quello registrato mediamente sulla superficie globale della Terra, aumentata tra 0,6 e 0,8 °C negli ultimi 150 anni. Le analisi del Goddard Institute for Space Studies della Nasa hanno inoltre dimostrato che gli otto anni più caldi dell’ultimo secolo si sono verificati tutti dopo il 1998, e che nel 2015, per la prima volta, è stata superata la soglia di +1°C rispetto alla media del XIX secolo.
La migrazione degli animali e in qualche caso la loro estinzione causa una perdita di biodiversità, che “per intenderla va immaginata come una rete a maglie molto fini, dove ogni nodo è costituito da una specie – spiega Mauro Gobbi, entomologo del Museo delle Scienze di Trento (Muse) – e se io inizio a tagliare questi nodi, la rete diventa a maglie sempre più larghe, l’instabilità che ne consegue è ciò che il riscaldamento globale sta provocando agli ecosistemi, con ricadute su tutti gli elementi che li formano, uomo compreso”.
E per capire quanto in questo processo sia coinvolta l’umanità, basti pensare agli insetti impollinatori e al ruolo essenziale che questi hanno in agricoltura.
Insetti che scompaiono e altri che si diffondono
“Recenti studi scientifici hanno confermato che eventi climatici estremi come le ondate di calore e le alluvioni hanno un effetto molto negativo sulle comunità di insetti”, sottolinea Gobbi. “È stato dimostrato che le farfalle e alcuni coleotteri in seguito a certi eventi estremi diventano sterili”. “Come sappiamo, questi insetti – conclude – sono fondamentali nei processi di impollinazione di molte piante, comprese quelle che mangiamo. Va da sé che una diminuzione della popolazione ha effetti anche sulla crescita e diffusione di queste piante”.
Ondate di calore e aumento delle temperature minime possono anche favorire certe specie di insetti come la zecca dei boschi, che in Trentino è aumentata di numero e oggi si trova anche a quote più elevate. E negli ultimi cinque anni, secondo i dati dell’Azienda sanitaria del Trentino, la media annuale dei casi di TBE (encefalite da zecca) è più che raddoppiata passando da 9,7 casi a 23,2.
Anche la zanzara tigre, specie tropicale e potenziale vettore di alcuni virus, è arrivata in Europa da pochi decenni e fino a qualche anno fa non esisteva sull’arco alpino.
Oggi si trova anche nella Valle dell’Adige e uno studio della Fondazione Mach ha dimostrato come entro il 2050 potrebbe espandersi sia in altre valli più in alto, aumentando sensibilmente il suo areale.
“È importante coinvolgere le persone, fare cultura – evidenzia Andrea Mustoni, zoologo del parco naturale Adamello Brenta – sensibilizzare le persone sul fatto che gli sconvolgimenti dovuti al riscaldamento globale riguardano anche noi homo sapiens, è la nostra stessa sopravvivenza a essere a rischio, insieme a quella della flora e della fauna”.
“Non succederà domani – conclude Mustoni – ma l’orizzonte è chiaro e molti degli effetti di questo processo non li conosciamo; potremmo cominciare dal dire basta a nuove infrastrutture sul territorio delle Alpi, che è uno dei territori di montagna più antropizzati al mondo e quindi particolarmente a rischio”.
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