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Frontalieri e telelavoro, un connubio da incoraggiare o no?

persona in telelavoro
Dal 1. febbraio, i giorni lavorati da casa in Italia, vengono tassati dal fisco italiano, quelli svolti in Svizzera, da quello elvetico. © Keystone / Gaetan Bally

La pandemia ha modificato molte abitudini lavorative, sedimentando nelle vite di molte e molti dipendenti l'home office. Per i frontalieri e le frontalieri che vivono in Italia, le cose, a livello fiscale, si sono però complicate parecchio a partire dal 1. febbraio e c'è chi non è convinto che vadano semplificate.

Di personale frontaliero, che ogni giorno attraversa il confine italo-svizzero per venire a lavorare in Ticino, ce n’è sempre di più. Eppure, malgrado il numero in crescita (o forse a causa di esso), le discussioni volte a regolamentare questo tipo di scambio trovano sempre il modo di incepparsi.

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Nel dicembre scorso, la Segreteria di Stato per le questioni finanziarie internazionali (SFICollegamento esterno) aveva parlato della “chiara volontà” del Consiglio federale “di negoziare un nuovo accordo amichevole sul telelavoro con l’Italia”. Con la Francia, da dove quotidianamente arriva il più grande numero di frontaliere e frontalieri (quasi 215’000 al giorno), il patto è stato infatti ridefinito e prolungato.  

Con Roma, qualcosa però è andato storto e l’Amministrazione federale ha annunciato che l’intesa amichevoleCollegamento esterno conclusa nel giugno 2020 – pochi mesi dopo l’esplosione della pandemia – non sarebbe stata prorogata oltre il 31 gennaio di quest’anno. Il patto in questione era volto ad evitare la doppia imposizione fiscale per i dipendenti e le dipendenti che lavorano da casa, in modalità “home working”.

Nel contesto della crisi sanitaria legata al Covid-19, l’Italia e la Svizzera hanno concluso il 18-19 giugno 2020 un accordo amichevole, conformemente alla procedura di amichevole composizione per evitare le doppie imposizioni. In tale occasione, a motivo della natura straordinaria della pandemia, le autorità competenti italiana e svizzera hanno convenuto che, in via eccezionale e provvisoria, i giorni di lavoro svolti nello Stato di residenza, a domicilio e per conto di un datore di lavoro situato nell’altro Stato contraente, a seguito delle misure adottate per
combattere la diffusione del Covid-19 sono considerati giorni di lavoro nello Stato in cui la persona avrebbe lavorato e ricevuto in corrispettivo il salario, lo stipendio e le altre remunerazioni analoghe (“reddito”) in assenza di tali misure.

Dal 1. febbraio, quindi, malgrado il malcontento di molti, i giorni lavorati in Italia, vengono tassati dal fisco italiano, quelli svolti in Svizzera, da quello elvetico.

Nel corso del mese di febbraio, il presidente dell’Associazione Comuni italiani di frontiera, Massimo Mastromarino, ha inviato una lettera a Roma in cui viene chiesto all’Esecutivo di sottoscrivere con Berna una nuova intesa, che si rifaccia a quella stipulata di recente tra la Confederazione e la FranciaCollegamento esterno. Quest’ultima prevede infatti che il telelavoro svolto in patria continui ad essere tassato in Svizzera nella misura massima del 40% dell’orario.

Nella seduta del 23 febbraio, la Camera dei deputati ha approvato il disegno di legge che impegna il Governo Meloni a firmare un nuovo accordo in tal senso con il Consiglio federale.

Voci critiche

Dal lato elvetico, tuttavia, non tutti sono convinti della bontà del patto. Il consigliere nazionale ticinese Lorenzo Quadri (Lega) ha infatti inoltrato una mozione in cui chiede espressamente al Governo di rinunciare alla stipulazione di una nuova intesa. I settori, sostiene Quadri, in cui il telelavoro può più frequentemente essere attuato – ossia l’impiego d’ufficio – sono anche quelli che creano dumping e in cui i datori di lavoro “sostituiscono” il personale ticinese con quello frontaliero, nuocendo così al mercato del lavoro locale.

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“I frontalieri che possono usufruire dell’home office non sono certo quelli attivi nell’ambito delle cure (ospedali, case per anziani, eccetera), e nemmeno quelli sui cantieri o nelle fabbriche” argomenta Quadri.

In Ticino, scrive ancora nell’atto parlamentare rifacendosi agli ultimi dati dell’Ufficio federale di statisticaCollegamento esterno (UST), quasi un terzo – ossia 32,6% – delle lavoratrici e dei lavoratori è frontaliere. Rispetto al totale del personale impiegato, si tratta della quota più alta della Svizzera, ed è in continua crescita. “Allarmante la situazione nel settore terziario”, continua ancora il deputato, dove l’aumento annuale è stato del 5,6%.

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In base agli ultimi dati ufficiali, relativi alla fine del 2022, il numero di lavoratrici e lavoratori che quotidianamente varca le frontiere per svolgere la propria professione in Svizzera arriva a 380’000. Quasi 90’000 provengono dall’Italia e, di questi, quasi 78’000 entrano ogni giorno in Ticino.

Ma complicando la dichiarazione fiscale per renderla obbligatoria in entrambi i Paesi, gli chiediamo, non si rischia che i datori di lavoro semplicemente vietino l’home office a tutti, senza modificare la provenienza del personale? Di conseguenza, sarebbero penalizzati anche i dipendenti e le dipendenti indigene, cui talvolta il telelavoro fa comodo.

“Se i datori di lavoro vogliono assumere qualcuno da mandare in home office – pratica sulla quale ho comunque delle riserve –, che lo facciano con il personale ticinese e potranno comunque risparmiare sulle infrastrutture, sugli uffici, eccetera”, asserisce il consigliere nazionale leghista. “Questo accordo interviene sulle questioni fiscali, non impedisce di fatto il telelavoro per i frontalieri”, aggiunge infine.

Un mondo in evoluzione

“Il telelavoro nasce come un’esigenza durante la pandemia, un provvedimento eccezionale, che però è diventato sempre più strutturale”, ha da parte sua spiegato Mastromarino interpellato dal Corriere del TicinoCollegamento esterno. “È una modalità nuova di lavoro, che da una parte permette ai lavoratori e alle lavoratrici di utilizzare al meglio il proprio tempo, dall’altra consente al sistema produttivo e lavorativo di organizzare meglio i propri spazi e le proprie modalità di erogazione e organizzazione del lavoro. Infine, permette di ridurre la mobilità dei frontalieri”.

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Un aspetto che non trova il consenso di Lorenzo Quadri: “Lo dico in base all’esperienza. Prima del 31 gennaio (data in cui è scaduta la proroga all’accordo amichevole, ndr.) le strade non erano più libere rispetto ad ora, non ci sono stati cambiamenti in tal senso”.

Il presidente dell’Associazione dei Comuni di frontiera ne è tuttavia convinto: il telelavoro “è un’evoluzione del lavoro dei e delle frontaliere”. Insomma, se la formula di impiego ibrido si sta sedimentando per il personale in patria, funziona anche per chi varca il confine, sostiene Mastromarino. La palla passa ora alle istituzioni.

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