La raclette vegana, il Governo e l’insulto alla tradizione vallesana
In un Paese celebre per la sua neutralità, una notizia ha scatenato un conflitto che minaccia la scissione di un Cantone: Agroscope, il centro di competenza della Confederazione per la ricerca agricola, ha osato creare una raclette vegana. Un affronto, un sacrilegio, una vera e propria dichiarazione di guerra per il Vallese, patria indiscussa della raclette tradizionale.
Immaginate la scena: scienziati in camice bianco che, invece di studiare nuove varietà di mele o patate resistenti alle malattie, si cimentano nella creazione di un’alternativa al sacro formaggio fuso. Il risultato? Un prodotto a base di residui della spremitura dei semi di girasole. Agroscope, con orgoglio tutto scientifico, la definisceCollegamento esterno una “deliziosa alternativa vegetale”, nata con l’obiettivo di “anticipare il futuro” e creare “alimenti innovativi, sani e sicuri”.
Il processo produttivo è quasi alchemico: i residui dei semi di girasole vengono riscaldati, raffreddati alla temperatura di fermentazione, mescolati con una cultura di batteri lattici e fatti fermentare a temperatura ambiente. Poi, il prodotto indurisce per due settimane in camera fredda. Il risultato, testato nientemeno che da Betty BossiCollegamento esterno, avrebbe “eccellenti proprietà di fusione” e “aromi di fermentazione pronunciati”. Insomma, tutto perfetto. O quasi.
Ma la domanda che circola in Svizzera è: si può davvero chiamare “raclette”? Agroscope, dopo le prime, feroci reazioni, ha prudentemente aggiustato il tiro, passando da “raclette vegetale” a “alternativa vegetale che offre un’esperienza di raclette”. Un po’ come dire che un gatto di peluche è un'”alternativa felina che offre un’esperienza di coccole”. La correzione è stata presentata come un'”armonizzazione con la versione tedesca” del comunicato. Una retromarcia diplomatica che non ha convinto nessuno.
La rivolta dei vallesani coinvolge il Governo federale
Nel Canton Vallese, la notizia è stata accolta con lo stesso entusiasmo con cui si accoglierebbe una nevicata a luglio. La Consigliera agli Stati Marianne Maret, ovviamente vallesana, ergendosi a paladina della tradizione, ha depositato un’interpellanza al Consiglio federale dal titolo inequivocabile: “Una raclette è una racletteCollegamento esterno!”. Non una domanda, non un dubbio: un’affermazione categorica, suggellata da un punto esclamativo che non ammette repliche.
“La raclette fa parte del patrimonio culinario vallesano, quindi per me tocca qualcosa di essenziale”, ha dichiarato la parlamentare al telegiornale della RTSCollegamento esterno. E non è sola: l’interpellanza, depositata il 2 dicembre 2025, è stata cofirmata da ben nove senatori, quasi un quarto del Consiglio degli Stati (46).
L’interpellanza pone tre domande al Consiglio federale. La prima è diretta: è opportuno che fondi pubblici sostengano la ricerca di prodotti che potrebbero concorrere direttamente con le filiere lattiero-casearie svizzere? La seconda mette in discussione le priorità di Agroscope: lo sviluppo di una raclette vegana è davvero conforme alla missione dell’istituto di sostenere un’agricoltura svizzera competitiva e sostenibile? La terza tocca il nervo scoperto della denominazione: con quale nome si può commercializzare un tale prodotto senza rischiare diconfondere consumatrici e cosumatori?
Marianne Maret non usa mezzi termini: “Mi disturba che la ricerca possa portare allo sviluppo di un prodotto potenzialmente in concorrenza con quelli forniti dai contadini svizzeri e vallesani ed essenziali per la loro sopravvivenza”. E aggiunge, con una punta di amarezza: “Idealizzavo Agroscope per le sue ricerche su varietà resistenti alle malattie. Ma questo prodotto non sostiene l’agricoltura svizzera”.
Casari e affinatori all’attacco
Le fa eco Eddy BaillifardCollegamento esterno, ambasciatore della Raclette du Valais AOP che, intervistato dal quotidiano locale Le NouvellisteCollegamento esterno, non usa mezzi termini: “Mi irrita vedere che i soldi dei contribuenti vengono usati così. Il mercato del latte è ingolfato, e si sviluppano prodotti lattiero-caseari senza latte”. Per lui, la questione è semplice: “Un formaggio vegano non esiste. È una pasta da fondere, al massimo. Chiamarla raclette è come parlare di una bistecca di soia”. E propone, con un guizzo di genio, un nuovo nome: “riflette”. Sembra che sui social, il suggerimento abbia raccolto consensi entusiasti.
Anche Claude LuisierCollegamento esterno, uno dei più rinomati affinatori di formaggi del Canton Vallese, è scettico. Dalla sua cantina, dove le forme giunte dagli alpeggi maturano lentamente, esprime un giudizio impietoso: “Ho assaggiato formaggi vegani e raclette vegane. Alcune non sono male dal punto di vista del gusto. Ricordano un po’ dei pâté o delle terrine. Ma non hanno niente a che vedere con il formaggio”.
La fondue vegana, l’altra gloria nazionale sotto assedio
Ma la raclette non è l’unica specialità svizzera nel mirino dell’innovazione vegana. Anche la fondue, altra gloria nazionale (questa volta friburghese), ha la sua versione vegetale. E qui la storia si fa ancora più interessante.
Dal 2022, l’azienda bernese New Roots, con sede a Oberdiessbach (Canton Berna), produce una fondue vegana a base di anacardi fermentati. L’azienda, che si presenta come la “prima crémerie vegana della Svizzera”, ha iniziato la sua avventura “in un angolo di chalet” e ora dispone di una fabbrica di 4’000 metri quadrati per rispondere alla domanda. Un successo che le ha persino fruttato un Green Business AwardCollegamento esterno.
Eppure, nonostante il successo di New Roots (i prodotti si trovano da Coop e Migros), sul territorio vallesano la fondue vegana non ha sfondato.
Non è nemmeno una novità
Come se non bastasse, si scopre che la raclette vegana di Agroscope non è nemmeno una novità assoluta. La stessa New Roots produce dal 2022 una versione a base di lupino fermentato, venduta online a 36 franchi al chilo. Un prodottoCollegamento esterno che, a dire il vero, sembra avere poco successo: Le Verger Solari, boutique bio di Sion che vende prodotti vegani e senza lattosio, ha provato a inserirla nell’assortimento: “Non ha funzionato molto, non l’abbiamo più ordinata”, commentano laconicamente a Le Nouvelliste.
Questo solleva un’altra domanda, che è anche un po’ quella di Marianne Maret: se il mercato ha già bocciato prodotti simili, perché Agroscope investe fondi pubblici in un progetto analogo? La risposta dell’istituto è che il loro prodotto si distingue per l’uso di materie prime locali (semi di girasole svizzeri) e per l’assenza di additivi. Inoltre, si cercano partner artigianali per la produzione, pensando alle fromagerie di villaggio. La scadenza per le manifestazioni d’interesse è fissata al 30 gennaio 2026.
Una questione di identità (e di ketchup)
La vicenda ha assunto contorni quasi filosofici. Il Consigliere nazionale vallesano Philippe Nantermod, in un editoriale su Le Temps dal titolo eloquente “La raclette, simbolo della fragilità del ValleseCollegamento esterno“, ironizza sulla “fragilità della gente di montagna” e sulle priorità della politica svizzera.
“Mentre l’Europa si riarma, reintroduce la coscrizione e si prepara ad affrontare le ambizioni di Putin, la Svizzera si esaurisce in dispute territoriali”, scrive Nantermod. E aggiunge: “Il Vallese detiene un triste doppio primato: il maggior aumento del numero di fallimenti del Paese e la maggiore esposizione al rischio di recessione legato ai dazi doganali americani. Eppure, gli eletti vallesani hanno trovato di che infiammarsi: Agroscope ha testato una raclette vegetale”.
Per Nantermod conclude con una confessione shock che potrebbe costargli la carriera politica: “A me la raclette piace con il ketchup”. Una dichiarazione che, in Vallese, equivale a un’eresia. Forse gli sarà tutto perdonato, considerato che è pur sempre cresciuto nel vicino Canton Vaud.
La liturgia della raclette
La Neue Zürcher ZeitungCollegamento esterno, con il distacco tipico della Svizzera tedesca, ha dedicato alla vicenda un articolo illuminante firmato da Matthias Venetz, che scrive: “quando si parla di raclette, i vallesani si trasformano in convinti calvinisti del formaggio”.
Per la NZZ, la raclette vegana finanziata con le tasse è solo “l’ultimo episodio di una lunga serie di malintesi culturali”. Perché, spiega il giornale, la raclette non è un semplice piatto, ma una liturgia. E come ogni liturgia che si rispetti, ha i suoi officianti, i suoi fedeli e le sue regole ferree.
L’articolo descrive minuziosamente il rituale: il racletteur che veglia sulla mezza forma di formaggio davanti al fuoco, la crosta dorata che si forma lentamente. Il racletteur serve ogni ospite a turno, facendo rispettare un rigoroso egualitarismo. Chi cerca di saltare la fila viene rimandato al suo turno senza appello.
A tavola, si conversa con un bicchiere di vino bianco, senza nient’altro in programma per la giornata. L’unico compito è riempire il bicchiere al racletteur: quando serve, ma sempre senza che lo chieda. A un certo punto, inevitabilmente, arriva la domanda sulla provenienza del formaggio. Si dà per scontato che sia vallesano, ovviamente. Ma sulle sfumature gustative di un “Heida”, un “Gommer”, un “Turtmänner” o un formaggio del Val de Bagnes si può discutere per ore.
E poi c’è il purismo. Se il formaggio è buono, non servono altre guarnizioni oltre a cetriolini, cipolline e un pizzico di pepe. Una minoranza tollera anche zucchine e peperoni sott’aceto, ma solo se provengono dall’orto di una persona presente o a lei imparentata…
Pace o guerra fredda?
Cosa ne sarà di questa guerra dei formaggi? Riusciranno i puristi della raclette a respingere l’invasione vegana? O assisteremo a una pacifica convivenza, con tavolate imbandite dove la mezza forma di raclette du Valais AOP siederà accanto ai panetti di girasole?
Il servizio del telegiornale della RSI:
Una cosa è certa: la raclette non è solo un piatto, è un patrimonio culturale protetto dall’AOP dal 2007Collegamento esterno, un’arte di vivere tramandata da generazioni, un simbolo identitario che affonda le radici nel Medioevo. Per dirla con Marianne Maret, “è in gioco qualcosa di essenziale”.
E allora, mentre aspettiamo la risposta del Consiglio federale prevista per marzo 2026, una sola raccomandazione: se volete sperimentare alternative vegane, fatelo. Ma per favore, non chiamatele “raclette”. E soprattutto, non metteteci il ketchup.
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