La scuola degli immigrati
Giorgio Brunello e Maria De Paola, Lavoce.info
Risultati scolastici nel mondo
Il livello di istruzione degli immigrati gioca un ruolo cruciale per la loro integrazione nel paese ospitante perché influenza la probabilità di occupazione e i redditi e in gran parte dei paesi europei, sono in media meno istruiti dei nativi.
Il divario tende a persistere anche per gli immigrati di seconda generazione (nati nel paese ospitante), che rispetto a quelli di prima generazione non hanno lo svantaggio di doversi adattare a un nuovo contesto e di imparare una nuova lingua, pur con forti differenze tra paesi. Ad esempio, in Inghilterra, Irlanda, Norvegia e Svezia la percentuale di immigrati con istruzione universitaria è più alta rispetto nella popolazione nativa, mentre il contrario accade in Belgio, Finlandia, Italia e Spagna (http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2379503). In paesi come il Canada e l’Australia, gli immigrati di seconda generazione presentano livelli di competenza nei test Pisa (Programme for International Student Assessment) superiori a quelli dei nativi.
La diversità delle situazioni dipende da numerosi fattori, come ad esempio le politiche di immigrazione adottate, l’organizzazione del sistema scolastico e le politiche in materia di istruzione. Poiché gli immigrati che arrivano in età scolare e quelli di seconda generazione effettuano le proprie scelte educative nel paese ospitante, le caratteristiche del sistema educativo (in termini di età di ingresso, accoglienza negli asili nidi, composizione delle classi, formazione dei docenti) possono essere determinanti per il loro successo scolastico (LINKDe Paola, Brunello, 2016).
La situazione in Italia
In Italia, il numero di studenti stranieri è passato da 196.414 nel 2001-2002 (2,2 per cento della popolazione scolastica complessiva) a 814.187 nel 2014-2015 (9 per cento del totale). Molti sono in ritardo rispetto al regolare percorso di studi (circa il 14 per cento degli iscritti alla scuola primaria contro l’1,9 per cento degli studenti italiani nel 2013-2014), non parlano l’italiano in casa (45 per cento) e provengono da condizioni socio-economiche svantaggiate (solo il 5 per cento ha un padre laureato). Esaminando i loro risultati nei test Invalsi, si riscontra un divario di circa 10 punti nella prova di matematica e di circa 14 punti nella prova di italiano (studenti della quinta classe primaria nel 2012-2013). Il gap si riduce a 9 e a 13 punti (rispettivamente per matematica e italiano) se si controlla per la lingua parlata in casa e scende ulteriormente (a circa 3 e a 5 punti) se lo si fa anche per le condizioni socio-economiche della famiglia (misurate considerando la condizione occupazionale dei genitori, la disponibilità di un luogo adatto per studiare, il numero di libri disponibili in casa).
Quindi, e coerentemente con quanto riscontrato da altri studiCollegamento esterno, il divario scolastico tra nativi e immigrati in Italia è in gran parte spiegato dalla padronanza della lingua e dalle differenti condizioni socio economiche (diversamente da quanto accade in Finlandia, Austria Belgio, dove si riscontrano grandi differenze tra immigrati e nativi anche a parità di condizioni familiari).
I risultati suggeriscono che politiche tese a migliorare la conoscenza della lingua italiana, come quelle previste nell’ambito dalla Buona scuola, sono utili per superare le difficoltà linguistiche incontrate dagli studenti stranieri, ma non sono probabilmente risolutive. Occorre intervenire per compensare il deficit prodotto da condizioni familiari avverse, sia per gli immigrati che per i nativi, anche per contrastare la dispersione scolastica. In Italia ben il 17,75 per cento dei giovani sotto i 25 anni non completa le scuole superiori, ben al di sopra dell’obiettivo UE del 10 per cento (dati Ocse). La percentuale è superiore al 20 per cento se si considerano i giovani residenti nelle regioni del Sud (25 per cento per la Sardegna) e i cittadini stranieri (33 per cento).
È quindi necessario intervenire sia con politiche di sostegno alle famiglie in condizioni di povertà che con politiche specifiche, soprattutto – ma non solo – nella fase prescolare. È quello che in Italia stanno provando a fare, con risultati incoraggianti, alcune organizzazioni non governative con progetti su piccola scala (ad esempio “FuoriclasseCollegamento esterno“), che prevedono il coinvolgimento di studenti, docenti e genitori e che intervengono con attività sia scolastiche che extrascolastiche.
L’importanza delle condizioni familiari avverse solleva anche il problema di quali politiche di lungo periodo attuare nei confronti dei flussi migratori. Mentre infatti non è possibile scegliere le caratteristiche familiari dei nativi, è possibile orientare la composizione degli immigrati, ad esempio cercando di attrarre dall’estero individui con buon capitale umano. Politiche di questo tipo sono attuate da tempo in paesi come il Canada, l’Australia e in parte negli Stati Uniti (Facchini e LodigianiCollegamento esterno, 2014), ma non nella gran parte d’Europa, compresa l’Italia. Sembra però che le cose inizino a cambiare: anche il nostro paese di recente ha aderito alla direttiva europea che ha introdotto la Blue card al fine di favorire l’immigrazione di lavoratori qualificati. Per attrarre persone qualificate dall’estero, tuttavia, serve un mercato del lavoro che premia il capitale umano. La crescente emigrazione di nostri giovani laureati verso paesi con una struttura socio-economica più meritocratica suggerisce un sano scetticismo sulla capacità del nostro paese di competere nella distribuzione mondiale dei talenti.
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