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La misteriosa Italia con gli occhi a mandorla

ansa

Hypercorsivo di Massimo Donelli

Questo contenuto è stato pubblicato il 31 maggio 2016

I negozi?

Tranne che la notte, sempre apertiLink esterno. E vendono di tutto, a prezzi bassissimi.

I ristoranti?

Anche quelli sono no-stop. Puoi mangiare quanto vuoi e il conto, alla fine, ti strappa un sorriso: è quasi sempre ridicoloLink esterno.

I parrucchieri?

Tariffe da urloLink esterno: cinque, sei volte meno rispetto alla media.

Le manicure?

Ricevono senza appuntamentoLink esterno, fino alle nove di sera. E costano…niente.

Riparazioni hi-techLink esterno?

Consegni entro le 15 e alle 18, cascasse il mondo, il tuo iPhoneLink esterno è pronto: ti hanno cambiato il vetro e hai speso niente rispetto agli official storeLink esterno della AppleLink esterno.

I bar?

Caffè a 60 centesimiLink esterno, garantito. E orari i più lunghi possibili.

Centro massaggi?

I cartelli in vetrina promettono molto a poco, lasciando il resto all'immaginazione e alle maliziose dicerieLink esterno

Come?

Volete sapere dove si trova questo piccolo paradiso del consumatore?

In Italia.

O meglio: nei territori cinesi d'Italia.

Sempre più vasti.

Sempre più frequentati.

Sempre più misteriosi.

Capannoni, centri commerciali, piccoli esercizi…

Dalla Sardegna alla Valle d'Aosta, da Trieste a Napoli, da Milano a Roma, mentre gli italiani gettano la spugnaLink esterno, è tutto un fiorire di attività commerciali che instancabili uomini e donne dagli occhi a mandorla gestiscono con successo.

Circondati da sospetto e maldicenza.

"Non rispettano i contratti di lavoro", "Sono sporchi", "Non pagano le tasse", "Vendono merce scaduta", "Usano shampoo e tinture pericolose", "Sono tutti in mano alla loro mafia", "Non fanno scontrini", "Dove li nascondono quando muoiono?", "Hanno mini-ospedali clandestini", "Fanno lavorare anche i bambini", "Mettono i dipendenti a dormire in cantina e nei garage"…

Vero o falso?

I cinesi d'Italia lasciano dire.

Non hanno alcuna ansia di integrazione sociale.

A parte pochissime eccezioni, si sposano fra connazionali, vivono chiusi nei loro quartieri e non sembrano avere alcuna intenzione di buttar giù il muro invisibile che li separa dagli italiani e dalle altre comunità straniere sparse per il BelpaeseLink esterno (magrebini, filippini, balcanici, sudamericani).

Ovvio che tutto ciò alimenti il mistero, il sospetto e, appunto, la maldicenza.

Eppure se, d'improvviso, la grande ChinatownLink esterno tricolore divenisse trasparente chissà quali numeri potrebbe esibire con vanto, oltre a quelli, pochi ma importanti, fin qui conosciuti.

Vediamoli.

I cinesi d'Italia sono 265.820 secondo gli ultimi datiLink esterno diffusi dall'IstatLink esterno (ma non è azzardato dire che i non registrati siano molti, molti di più…).

Il nucleo maggiore (28.360) si trova a MilanoLink esterno, con una crescita del 17 per cento tra 2014 e 2015.

E sotto la MadonninaLink esterno, infatti, il cognome più diffusoLink esterno è Rossi (4.281 individui) ma tallonato da Hu (4.132); i Chen (1944) hanno scavalcato i Villa (1.842); gli Wang (1.234) sono più dei Barbieri (1.216)…

Proprio Milano offre informazioni molto interessanti.

Per esempio, i bar gestiti dai cinesiLink esterno sono passati dai 122 del 2005 ai circa 530 del 2013, una crescita sbalorditiva del 335% negli anni della grande crisi economica.

Non basta.

Dei 1.089 centri estetici aperti in città, ben 606 sono in mano ai cinesi: oltre ai normali massaggi, non di rado offrono, illegalmente, prestazioni sessualiLink esterno.

E alle porte di Milano, ad Agrate, in autunno aprirà il Centro ingrosso CinaLink esterno, 400 negozi dai 60 a 180 metri quadri, 260 società, 800 dipendenti tra diretti e indotto: lo sta realizzando Chen WenxuLink esterno, detto Sandro, 40 anni, ricchissimo proprietario della catena di supermercati AumaiLink esterno.

Quante sono le storie di successo come quella di Sandro?

Tante, tantissime.

Molte, per non dire tutte, favorite da una dinamica sociale che promuove l'imprenditorialità.

Ecco come funziona.

Il grosso dei cinesi che vivono in Italia arriva da WenzhouLink esterno, una città nella provincia di ZhejiangLink esterno, come racconta un bel reportageLink esterno di ViceLink esterno.

Leggendolo, si scopre che alla base di ogni iniziativa c'è una colletta.

Tutti conoscono tutti; prestano il denaro (in contante) sulla fiducia; e, poi, sta a chi l'ha ricevuto darsi da fare per restituirlo nei tempi e modi concordati.

Un'economia aperta, quindi, che si basa su un meccanismo finanziario chiuso: solo i cinesi con una rete parentale e amicale ben definita possono accedere a questo particolarissimo credito.

E se, poi, uno non paga i debiti?

Anche qui leggende e verità si intrecciano.

Sequestri di persona.

Punizioni corporali.

Riduzione in schiavitù.

Esiste una vasta letteratura sulla mafia cineseLink esterno in Italia e la criminalità cineseLink esterno a Milano.

Ma, finora, sono più i misteri (e le dicerie) delle verità accertate.

Mentre è tangibile la realtà di un business che sembra non conoscere limiti di crescita.

Come testimonia un breve tour sul web: c'è il sito per gli italiani che vogliono vendere ai cinesiLink esterno; il portale per i cinesiLink esterno che fanno affari in Italia; e quello dell'associazione per le nuove generazioni di italo-cinesiLink esterno nati o cresciuti all'ombra del tricolore.

Sarà il digitale ad abbattere il muro invisibile che ha fin qui impedito un'integrazione tra Chinatown e il resto del Paese?

"C'è un tempo per pescare e un tempo per asciugare le reti", recita un antico proverbio cinese.

Non resta che, pazientemente, aspettare…

Segui @massimodonelliLink esterno

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