Italia-Usa, un vertice d’affari
Matteo Ferrazzi e Andrea Goldstein
Gli americani in Italia
Quella di oggi 17 aprile 2015 è la prima visita ufficiale di Matteo Renzi alla Casa Bianca. Con Barack Obama, il presidente del Consiglio discuterà di politica internazionale, soprattutto le crisi in Libia e in Ucraina e la lotta al terrorismo, nonché dell’economia europea e della Transatlantic trade and investment partnership (Ttip). Ma sicuramente anche le relazioni economiche tra i due paesi fanno parte dell’agenda dell’incontro.
Come i suoi predecessori, e probabilmente con maggiore legittimità, Renzi vuole rassicurare Washington e la business community americana che l’Italia è un paese dove vale la pena investire, tanto più adesso che il dollaro è forte.
Del resto, secondo le più recenti statistiche Istat sulla struttura e le attività delle multinazionali estere in Italia, nel 2012, gli Stati Uniti erano il paese con il maggiore numero d’imprese (2.214 su 13.328) e di addetti (oltre 263mila su un totale di circa 1,2 milioni). Attivano il 23 per cento del valore aggiunto delle multinazionali estere presenti in Italia – più che Francia (17,4 per cento) e Germania (12,6 per cento).
Però la crisi ha avuto pesanti effetti, secondo l’inchiesta annuale del Bureau of Economic Analysis (Bea). Dal 2007 al 2012 sono sì aumentate le filiali italiane di multinazionali americane con almeno 25milioni di dollari di giro d’affari – di sei unità, non molto rispetto all’incremento di 711 registrato in Europa – ma in compenso l’occupazione si è contratta nello stesso periodo da quasi 214mila unità (2009) a poco più di 207mila (2012).
È anche interessante notare come siano dimunite le spese in ricerca e sviluppo (di 106milioni di dollari), mentre ha continuato a crescere il monte-salari – come nel Regno Unito, dove in compenso l’occupazione è cresciuta di ben 45mila unità.
Se l’Italia ha perso terreno rispetto al resto dell’Europa – dove le multinazionali americane hanno registrato un saldo netto di 55mila posti di lavoro e di 26 miliardi di dollari di valore aggiunto – cosa ci dice la composizione per settori? Anche se nel manifatturiero si concentra la maggior parte dell’occupazione americana in Italia con il 44 per cento – in linea con il valore complessivo per l’Europa – il dato è tuttavia molto più basso che in Germania (56 per cento).
Non disponiamo di suffcienti dati per provarlo, ma è probabile che contribuisca a questo risultato deludente il tanto spesso citato nanismo del capitalismo italiano, che offre poche opportunità a gruppi stranieri interessati a far shopping in Italia per valorizzare specifici marchi e competenze.
Indici assai grezzi (vendite e valore aggiunto per addetto) confermano l’esistenza di un notevole gap di produttività rispetto alla media UE. Un esercizio altrettanto rozzo mostra anche cosa sarebbe successo se la performance italiana fosse stato allo stesso livello UE: nel 2012 il valore aggiunto prodotto dalle multinazionali americane in Italia sarebbe stato più alto di 2,5miliardi di dollari. Se oltretutto l’occupazione fosse rimasta al livello del 2009, l’impatto sarebbe stato positivo per 3,5miliardi di dollari – che sono pur sempre un “tesoretto” da due punti decimali di Pil.
Qualche luce peraltro sorge all’orizzonte, come il nuovo stabilimento della Philips Morris a Crespellano, nel Bolognese.
Il boom degli investimenti in Usa
In compenso negli ultimi anni c’è stato un vero e proprio boom degli investimenti italiani oltreoceano, dove sono attive 2.066 imprese. Sempre nel 2012 – cioè prima della nascita di Fiat Chrysler Automobiles – gli Stati Uniti erano il principale paese di localizzazione per le attività industriali (quasi 124mila addetti, rispetto a oltre 89mila in Romania), così come per la fornitura di servizi (circa 102mila, quando in Germania sono meno di 74mila).
Per quanto riguarda le caratteristiche di queste multinazionali, non disponiamo d’informazioni Istat per gli Stati Uniti, ma solo per il Nord America. Su questa base si evince che le filiali d’imprese italiane tendono a concentrarsi molto di più sull’automotive (sia fabbricazione sia, soprattutto, commercializzazione) rispetto a quanto avvenga in Europa; mentre al contrario sono poco presenti nei settori del made in Italy tradizionale, come abbigliamento e tessile, che invece pesano molto tra le filiali a controllo nazionale in Europa.
Le statistiche americane per il 2012 consentono una disamina ulteriore e rivelano un dato sorprendente. Secondo il Bea, il numero di addetti è superiore, quasi 134mila, che per l’Istat, ma l’Italia è ovviamente superata – e di molto – da Regno Unito, Germania, Francia, Svizzera e Olanda, ma anche da Svezia e Irlanda. In compenso, l’aumento dal 2007 è stato impetuoso: più 50mila addetti, pressoché la stessa cifra dei posti di lavoro che le imprese francesi hanno invece lasciato negli Stati Uniti a seguito di vari disinvestimenti.
Una situazione, insomma, interessante per il vertice odierno, che dimostra la ricchezza dei legami capitalistici che uniscono le due economie, l’identico sforzo politico per attrarre investimenti esteri e manageriale, per cercare opportunità e la possibile convergenza d’interessi per concludere il Ttip nei prossimi mesi, con le dovute salvaguardie per garantire tutta la trasparenza necessaria.
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