La televisione svizzera per l’Italia

Le trasformazioni in atto nel cuore del Made in Italy

Beatrice Venezi
Alessandra Tarantino/Invision/AP

Dalle passerelle dell'alta moda ai vigneti del Veneto, passando per i templi della lirica e le fabbriche del design, la stampa svizzera osserva con attenzione le trasformazioni in atto nel cuore del Made in Italy.

Tempesta sulla Fenice, il caso Venezi

Il Tages-AnzeigerCollegamento esterno, uno dei principali quotidiani svizzeri, punta i suoi riflettori su Venezia, dove una nomina sta scuotendo dalle fondamenta uno dei templi della lirica mondiale: il Gran Teatro La Fenice. L’articolo, intitolato “Una buona amica di Giorgia Meloni diventa la nuova direttrice musicale generale del Teatro dell’Opera di Venezia , e l’intero ensemble sciopera”, analizza con profondità le ragioni di una protesta che va oltre la musica, intrecciandosi con la politica e l’identità culturale italiana. 

Il quotidiano zurighese descrive una situazione esplosiva: l’intero organico del teatro – orchestra, coro e tecnici – è in sciopero contro la nomina di Beatrice Venezi, 35 anni, a direttrice musicale generale. La ragione ufficiale, come riporta il giornale, è la sua “mancanza di esperienza con orchestre rinomate”. I musicisti e le musiciste, che si definiscono un’eccellenza al pari della Scala di Milano e di Santa Cecilia a Roma, temono un danno irreparabile al prestigio internazionale del teatro. “La conosciamo a malapena”, afferma al Tages-Anzeiger Francesca Poropat, corista da 25 anni e rappresentante sindacale, sottolineando come l’ensemble abbia appreso della nomina a cose fatte, tramite un comunicato stampa che li ha lasciati “scioccati”. 

Ma dietro la questione puramente artistica, il giornale individua un’ombra ben più lunga: quella della politica. Venezi, si legge, è una figura molto vicina al Governo di destra di Giorgia Meloni. Già consigliera musicale del Ministero della Cultura, ha sostenuto attivamente la premier in campagna elettorale. L’articolo evidenzia anche la sua scelta, simile a quella di Meloni, di farsi chiamare con il titolo maschile, “direttore d’orchestra”, e la sua notorietà mediatica, tra spot pubblicitari e apparizioni al Festival di Sanremo. La sua nomina, secondo le voci critiche citate dal Tages-Anzeiger, non è un caso isolato, ma si inserisce in un sistematico “rimodellamento del settore culturale italiano” da parte del Governo. L’autore Roberto Saviano viene citato per descrivere questa strategia: “Portare i propri amici in ruoli chiave, non importa quanto incompetenti, imbarazzanti e inadatti siano”. 

Il quotidiano elenca una serie di nomine che avvalorerebbero questa tesi: nuovi vertici alla Rai, al Teatro di Roma, alla Biennale di Venezia e agli Uffizi di Firenze, dove si è voluto “finalmente di nuovo un italiano”. Secondo questa lettura, il Governo mirerebbe a controllare le istituzioni culturali per plasmare l’identità nazionale, ridurre influenze esterne, mettendo a tacere chi critica o vuole cambiare. Il fatto che il sovrintendente della Fenice, Nicola Colabianchi, il quale ha proposto Venezi, sia anch’egli considerato vicino a Fratelli d’Italia, rafforza questa interpretazione. 

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Leo Dell'Orco e Silvana Armani
Leo Dell’Orco e Silvana Armani. Copyright 2025 The Associated Press. All Rights Reserved

Il futuro di Armani

La Neue Zürcher ZeitungCollegamento esterno dedica un lungo e approfondito articolo a una delle questioni che più scuotono il mondo della moda e della finanza italiana: il futuro dell’impero Armani dopo la scomparsa del suo leggendario fondatore. L’articolo, firmato da Ulrike Sauer da Roma, non si limita a una cronaca degli eventi, ma delinea un ritratto intimo e strategico dell’uomo a cui “Re Giorgio” ha affidato il suo regno: Pantaleo “Leo” Dell’Orco. 

L’articolo della NZZ mette subito in chiaro il ruolo centrale del successore. Il racconto parte da un aneddoto quasi cinematografico: il primo incontro tra Armani e Dell’Orco nel 1976, nato per caso grazie ai loro cani che giocavano in un parco di Milano. Da quel momento, racconta il quotidiano, è iniziata un’ascesa discreta ma inarrestabile. Dell’Orco, giunto a Milano dalla Puglia a 10 anni, è diventato non solo il compagno di una vita di Armani, ma anche la sua ombra e il suo braccio destro, scalando le gerarchie aziendali fino a diventare direttore creativo delle collezioni uomo e, ora, presidente con il 40% dei diritti di voto. 

Il foglio zurighese sottolinea la personalità schiva di Dell’Orco, un uomo senza profili social che ha sempre operato dietro le quinte, fatta eccezione per le sue esultanze come presidente dell’Olimpia Basket Milano, club salvato e portato al successo proprio da Armani. Il foglio zurighese parla di una “graduale transizione di potere”, culminata nel giugno 2021 quando Armani, per la prima volta, si presentò sulla passerella mano nella mano con Dell’Orco, un gesto che il pubblico accolse con un’ovazione e che la NZZ interpreta come la designazione ufficiale del suo erede. 

Ma il vero colpo di scena, su cui l’articolo si sofferma con grande stupore, è contenuto nei due testamenti di Giorgio Armani. Contrariamente a tutto ciò che lo stilista aveva sempre professato – la difesa strenua dell’indipendenza del suo marchio contro le mire dei colossi francesi come LVMH e Kering – il testamento dà una missione precisa a Dell’Orco: vendere l’azienda e Armani ha persino lasciato una lista di compratori preferiti: LVMH, EssilorLuxottica e L’Oréal. Il quotidiano elvetico evidenzia la contraddizione con la creazione, nel 2016, di una fondazione pensata proprio per evitare che il gruppo venisse venduto o smembrato.  

La NZZ dipinge un quadro complesso: Leo Dell’Orco non è solo l’erede di un impero da 7 miliardi di euro, ma l’esecutore di una volontà sorprendente che ridisegnerà il futuro di uno dei marchi più iconici del Made in Italy. La sua missione, in questa delicata fase di transizione che coinvolge anche gli altri familiari eredi, sarà quella di seguire il motto del suo mentore: “Tutti possono dire la loro, ma a decidere è uno solo”. E quell’uno, ora, è lui, Leo Dell’Orco. 

Fumane Verona
Fumane Verona Info Valpolicella

Il ritorno del Valpolicella

La nostra rassegna stampa si arricchisce con un approfondimento della HandelszeitungCollegamento esterno, nota testata economica svizzera, che ci porta tra le colline del Veneto per raccontare un’inversione di tendenza nel mondo del vino. Sotto il titolo “Il ritorno di un vino di tradizione”, il giornale analizza come la formula di successo di vini potenti e strutturati come l’Amarone e il Ripasso stia perdendo colpi, lasciando spazio alla rinascita del più classico e leggero Valpolicella. 

L’articolo di Ursula Geiger parte dalle basi, spiegando come nella stessa regione, dalle stesse uve, nascano vini stilisticamente molto diversi. Un tempo, racconta la Handelszeitung, il Valpolicella, con i suoi profumi freschi di ciliegia, era il vino di tutti i giorni. Per le feste, invece, si produceva il Recioto, un vino dolce ottenuto da uve passite su graticci. La sua dolcezza era il risultato di una fermentazione incompleta, poiché i lieviti non riuscivano a trasformare l’enorme quantità di zuccheri. 

La nascita dell’Amarone, come ricorda il quotidiano, fu un caso. Nel 1930, una botte di Recioto fermentò completamente, diventando secca. Lo spavento iniziale lasciò presto il posto alla scoperta di un nuovo vino, potente e strutturato, che fu battezzato “Amarone” e commercializzato a partire dal 1953. Negli ultimi 40 anni, l’Amarone è diventato la “stella polare” del Veneto, con gradazioni alcoliche fino al 16% e prezzi elevati che ne sono diventati un marchio di fabbrica. Sulla sua scia, è nato il Ripasso, un “Amarone per il piccolo portafoglio”, ottenuto facendo rifermentare il Valpolicella sulle vinacce dell’Amarone, acquisendo così più corpo e dolcezza. La Handelszeitung quantifica questo successo: tra il 2015 e il 2021, la produzione di Ripasso è passata da 28 a quasi 35 milioni di bottiglie, e quella di Amarone da 13,8 a 19 milioni. 

Ma da tre anni, la tendenza si è invertita. Il giornale riporta dati che parlano chiaro: nel 2024, la produzione di Amarone è crollata di circa il 25% rispetto al picco del 2021. Anche il Ripasso ha subito una battuta d’arresto, con una produzione scesa a 18 milioni di bottiglie. Chi ne ha beneficiato? Il Valpolicella classico. Il vino più leggero e fruttato ha visto la sua produzione aumentare del 5%, raggiungendo i 17 milioni di bottiglie nel 2024. 

La ragione di questo cambiamento, conclude la Handelszeitung, è da ricercare nel trend globale che premia i vini più leggeri e freschi. Mentre Amarone e Ripasso rimangono eccellenti vini invernali, il Valpolicella, con la sua bevibilità, si adatta perfettamente anche a un consumo estivo, magari servito leggermente fresco. Un vero e proprio ritorno alle origini, che segna la rivincita della tradizione e della leggerezza in uno dei territori vinicoli più famosi d’Italia. 

Roberto (3. da sinistra) e Renato (2. da destra.) Minotti con la nuova generazione.
Roberto (3. da sinistra) e Renato (2. da destra.) Minotti con la nuova generazione. Minotti

Minotti, l’italianità senza tempo

L’ultima notizia della nostra rassegna stampa arriva dal magazine svizzero tedesco BilanzCollegamento esterno, che ci porta nel cuore del design Made in Italy per raccontare la storia di Minotti, un’azienda di arredamento che ha fatto della tradizione familiare e dell’eccellenza il suo marchio di fabbrica.  

Il racconto di Bilanz è un affresco familiare. Al centro ci sono i fratelli Roberto (classe 1955) e Renato (1960) Minotti, che hanno ereditato l’azienda dal padre Alberto e l’hanno traghettata nell’era moderna, senza mai tradire i valori fondanti: lealtà, fiducia e coesione. “La famiglia”, come sottolinea il giornale, viene prima di tutto, anche dell’ego.  

La storia di Minotti inizia nel 1948 a Meda, vicino a Milano, quando Alberto, poco più che ventenne, apre la sua falegnameria. A differenza del padre, che produceva materassi e sedie, Alberto sognava di creare mobili eccezionali per una clientela esigente. Inizia con due operai e la produzione di divani imbottiti di alta gamma, un’idea vincente nel pieno del boom economico. I figli, Roberto (architetto) e Renato (economista), entrano in azienda dopo gli studi, non senza qualche esitazione da parte di Roberto, inizialmente tentato da un’avventura negli Stati Uniti. A convincerlo è il fratello, con una semplice frase: “Se entri anche tu, potremmo costruire qualcosa di completamente nuovo insieme”. 

Bilanz evidenzia come i due fratelli, pur diversi, abbiano saputo definire con chiarezza le rispettive sfere di influenza, mantenendo una visione globale comune. Lo stesso modello viene ora applicato alla terza generazione: i figli di Roberto e Renato sono stati integrati in azienda in base alle loro inclinazioni e competenze, occupando ruoli chiave. 

L’azienda, sottolinea il magazine, è estremamente riservata sui numeri: non comunica fatturato, utili o numero di dipendenti. Tuttavia, gli esperti del settore collocano il giro d’affari nell’ordine delle centinaia di milioni di euro. Un’importanza riconosciuta anche a livello istituzionale: nel 2022, Minotti è stata iscritta nel registro speciale dei marchi storici di interesse nazionale, un’onorificenza che premia le eccellenze italiane con almeno cinquant’anni di storia.  

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