“Seminare utopia nelle terre devastate d’Italia”

Nella nostra rassegna stampa vi portiamo nella Puglia devastata dalla xylella. Questa settimana tra i temi italiani trattati dai media svizzeri vi sono anche la politica migratoria di Roma, un caffè svizzero a Perugia e la scienza applicata a un piatto leggendario della gastronomia romana.
In Puglia una monocoltura sinonimo di devastazione
Il portale Heidi NewsCollegamento esterno, specializzato nel giornalismo d’inchiesta, pubblica questa settimana un lungo reportage intitolato “Con coloro che seminano utopia nelle terre devastate d’Italia”, primo episodio di una serie dedicata alla storia delle sementi. La giornalista si è recata in Salento, regione dove la monocoltura dell’ulivo domina e che da anni è devastata dalla xylella. “Migliaia di ettari di piantagioni sono stati bruciati o sradicati per cercare di fermare la malattia. Niente da fare. Oggi si stima che decine di milioni di alberi siano stati colpiti e il batterio continua a spostarsi verso nord”, rileva Heidi News.
“Qualsiasi monocoltura è destinata all’estinzione, perché mira a semplificare e dominare la natura”, fa notare alla giornalista Luigi Coppola, membro dell’associazione Casa delle Agricolture. La parola d’ordine è quindi diversificare. Il problema? Ritrovare sementi adatte “al territorio nel quale sono evolute”. Quelle per le coltivazioni industriali, molto omogenee sul piano genetico, sono “ideali per grandi file di pomodori o mais standardizzati” e non risolvono quindi il problema della monocoltura. “Ritrovare queste sementi, mi raccontano i membri della Casa delle Agricolture, è stata una vera avventura. All’inizio, gli anziani del villaggio hanno dato al collettivo dei semi che coltivavano nel loro giardino. E poi, è stato un grande puzzle di incontri con ricercatori, agronomi, abitanti della regione, reti di agricoltori, associazioni e università”.
“Un seme non cresce da solo – prosegue l’articolo. Ha bisogno di una comunità che sappia come coltivarlo e prendersene cura. Queste conoscenze si affievoliscono quando le colture si uniformano, le popolazioni rurali si dislocano, le campagne si svuotano. Si dimenticano persino i modi per mangiarli”. Osservando una parcella coltivata dai membri dell’associazione, la giornalista afferma che “contrariamente alle solite immagini di campi omogenei, ogni spiga sembra un po’ diversa da quella vicina. Mi trovo di fronte a un campo di grano in cui convivono, non una, ma migliaia di varietà diverse. È un’idea fenomenale, che rivoluziona il modo stesso di concepire l’agricoltura moderna”.

Pesanti critiche del Blick all’Italia
“L’Italia ci prende per idioti quando si tratta di procedure d’asilo e noi lasciamo fare”, scrive questa settimana il BlickCollegamento esterno, prendendosela con le autorità della Penisola che da oltre due anni hanno sospeso le riammissioni dei cosiddetti casi Dublino. Confrontato con un aumento degli sbarchi, nel dicembre 2022 il Governo di Giorgia Meloni aveva decretato lo stop ai rinvii verso l’Italia dagli altri Paesi europei (e dalla Svizzera, che partecipa al sistema Dublino) di quelle persone la cui domanda d’asilo dovrebbe essere esaminata dalle autorità della Penisola.
Malgrado l’Italia si sia detta più volte disposta a discutere la ripresa delle riammissioni, ad esempio nel novembre scorso in occasione di un incontro a Chiasso tra il ministro di giustizia e polizia svizzero Beat Jans e il ministro dell’interno Matteo Piantedosi, finora non si è mosso nulla. Diverse centinaia di persone che la Svizzera avrebbe potuto in teoria rimandare nella Penisola sono dovute restare nella Confederazione. Per molte di esse – 1’454 secondo le cifre riportate dal Blick – il termine di trasferimento è ormai scaduto, il che significa che tocca alla Svizzera esaminare le loro domande di asilo nell’ambito della procedura nazionale.
Interpellata dal Blick, la Segreteria di Stato della migrazione, l’ente responsabile dell’asilo nella Confederazione, si è limitata a una laconica nota: “Restiamo in contatto con l’Italia”. “La Svizzera – ha commentato al giornale il consigliere agli Stati ticinese Fabio Regazzi – è a volte un po’ ingenua. Gli italiani sono negoziatori molto abili, hanno buone maniere, ma poi non sempre mantengono le promesse”.

Un caffè svizzero che lotta per sopravvivere
In diverse città europee e in particolare italiane, vi è una lunga tradizione di caffè aperti da cittadini svizzeri, come avevamo a suo tempo riportato in questo articolo. Ad esempio, nella prima metà del XIX secolo la famiglia grigionese dei Caflisch creò una sorta di catena ante-litteram aprendo dei caffè a Napoli, Catania, Palermo… A Firenze esiste ancora il Caffè Gilli, una vera e propria istituzione cittadina fondato nel 1733 da una famiglia anch’essa grigionese. Anche Perugia ha il suo caffè svizzero, ci ricorda questa settimana il giornale gratuito 20 MinutenCollegamento esterno.
Fondato nel 1860 da Jachen Schucan, originario – indovinate un po’? – dei Grigioni, il Caffè Sandri lotta oggi per la sua sopravvivenza. “È molto difficile”, spiega al quotidiano Fabrizio Rossetti, uno dei due titolari, che ha ripreso l’insegna nel 2021, dopo che era rimasta chiusa per qualche tempo. Perugia non è tra le destinazioni turistiche italiane più gettonate. Rossetti e il suo socio hanno cambiato il meno possibile. “Volevamo preservare questo posto”, spiega a 20 Minuten, mostrando i banconi di marmo, i lampadari di cristallo e i mobili art nouveau. “Una croce svizzera è incisa due volte al centro dei dipinti del soffitto a volta ed è anche ben visibile nel logo del caffè sui tovaglioli, sui menù e sulle bottiglie di liquore”.
“La Pasticceria Sandri, scrive 20 Minuten, ha vissuto il suo periodo di massimo splendore nella prima metà del XX secolo, quando divenne un luogo di incontro per le celebrità internazionali. Si dice che il re Gustavo VI Adolfo di Svezia la frequentasse, così come la regina Beatrice d’Olanda e la regina madre Elisabetta di Gran Bretagna. Questi ospiti non solo apprezzavano la squisita pasticceria, ma anche l’ambiente elegante del caffè”. Per oltre un secolo e mezzo, il caffè è stato gestito da un membro della famiglia Schucani (il cognome era stato reso un po’ più ‘italiano’ aggiungendo una ‘i’), fino a Carla Schucani, pittrice, pasticciera, designer di gioielli, deceduta nel 2022 e a cui avevamo dedicato un articolo nel 2018.

La scienza viene in aiuto per la cacio e pepe
Non so voi, ma io le rare volte che ho cercato di cimentarmi con una cacio e pepe mi sono ritrovato con una salsa grumosa e al limite dell’immangiabile. Quella che sembra una ricetta semplice può trasformarsi in un incubo per molti cuochi della domenica. Per fortuna che la scienza ci viene in aiuto. Questa settimana Le TempsCollegamento esterno ci apprende infatti che un gruppo di otto fisici italiani espatriati in Germania, Spagna e Austria ha messo a punto il protocollo per riuscire a preparare una cacio e pepe perfetta.
Nella loro ricerca, pubblicata il 29 aprile sulla rivista Physics of FluidsCollegamento esterno, il gruppo di scienziati è giunto alla conclusione che “la giusta percentuale di amido è compresa tra il 2 e il 3% del peso del formaggio” e che “il miglior rapporto tra acqua e formaggio è del 75%”. Se la quantità di amido di mais è inferiore al 2%, quello che chiamano l’”effetto mozzarella” è praticamente certo. “Mi sono cosÌ messo alla prova”, scrive il giornalista, che ha utilizzato 240 grammi di pasta, 160 grammi di pecorino romano e 4 grammi di amido di mais. Dapprima ha disciolto l’amido in 40 millilitri d’acqua, riscaldando lentamente e ottenendo una massa gelatinosa. Poi ha mixato questa soluzione con il formaggio e 80 millilitri d’acqua. Il risultato? Promosso a pieni voti.
“Una vera nonna italiana o un abile chef di Roma non avranno mai bisogno di una ricetta scientifica per la cacio e pepe e si affideranno all’istinto e ad anni di esperienza, scrivono gli autori dello studio. Per tutti gli altri, questa guida offre un modo pratico per padroneggiare il piatto”. La pasta – ricordano ancora gli otto scienziati – è spesso stata “fonte d’ispirazione per i fisici”. L’osservazione che gli spaghetti si rompono sempre in tre o più frammenti, ma mai in due, ha lasciato perplesso anche un fisico come Richard Feynmann, premio Nobel nel 1965. “E la spiegazione di questo intrigante fenomeno è valsa a Audoly e Neukirch il premio Ig Nobel”, attribuito ogni anno a ricerche “che fanno ridere e pensare”.

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