Giorgia Meloni “cerca il suo posto” in Europa

La Neue Zürcher Zeitung analizza questa settimana la posizione internazionale di Giorgia Meloni. I media svizzeri dedicano spazio anche alla questione altoatesina, alla comunità cinese di Prato e a una fuga dimenticata durante la Seconda guerra mondiale.
“Washington non ha bisogno di una mediatrice a Roma”
La Neue Zürcher ZeitungCollegamento esterno s’interroga questa settimana sulla fase delicata attraversata dalla presidente del Consiglio italiano sulla scena internazionale. “Giorgia Meloni cerca il suo posto”, titola il giornale. Dopo un inizio di mandato segnato “da pragmatismo e allineamento euro-atlantico”, la premier appare oggi più isolata sulla scena europea. La sua assenza dal recente viaggio simbolico a Kiev dei leader europei ha suscitato critiche e interrogativi in patria. “Ha perso il treno”, ha ironizzato Elly Schlein, leader del Partito Democratico, mentre Matteo Renzi l’ha collocata nella “seconda lega della diplomazia”.
Meloni ha giustificato la sua assenza affermando che l’Italia non fa parte della “coalizione dei volenterosi” disposta a inviare truppe in Ucraina. Tuttavia, Emmanuel Macron ha smentito: “Si è parlato di cessate il fuoco, non di truppe. Bisogna evitare di diffondere informazioni false”. Nonostante i tentativi di proporsi come ponte tra Europa e Stati Uniti, anche grazie ai suoi rapporti con Donald Trump ed Elon Musk, Meloni fatica a imporsi. Trump ha ricevuto prima Macron e Starmer alla Casa Bianca, segno che “Washington non ha bisogno di una mediatrice a Roma”.
In un contesto in cui i suoi alleati di Governo seguono linee estere divergenti, Meloni deve mantenere l’equilibrio. La sua immagine internazionale resta cruciale per il consenso interno: “I cittadini vogliono una premier rispettata e ascoltata nel mondo”. Ma una strategia chiara per uscire dall’angolo, per ora, non si vede, rileva la NZZ.
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La questione altoatesina ritorna in primo piano
La vicenda che ha visto protagonista la nuova sindaca di Merano, Katharina Zeller, è rimbalzata anche in Svizzera. Il gesto della neoeletta in occasione del passaggio di consegne col suo predecessore non è passato inosservato: l’esponente del Südtiroler Volkspartei si è tolta la fascia tricolore e ha indossato il medaglione con lo stemma della città. Al di là delle polemiche che ha suscitato questo episodio, quanto accaduto ha riportato in primo piano “la questione tirolese”, rileva la Radiotelevisione della Svizzera tedesca SRFCollegamento esterno.
L’emittente pubblica ricorda quanto sia stato travagliato il recente passato dell’Alto Adige, separato dall’Impero austroungarico e annesso all’Italia dopo la fine della Prima guerra mondiale. “Sotto la dittatura di Mussolini le persone germanofone soffrirono molto, scrive la SRF. Nel Dopoguerra, l’Alto Adige ottenne ampi diritti di autonomia, ma ancora oggi alcuni altoatesini quando viaggiano a Milano o a Roma, dicono di andare “in Italia”, come se non ne facessero parte”. Molte persone germanofone “si confrontano ripetutamente con la domanda: chi siamo, a chi apparteniamo?”.
La provincia si è comunque “ben integrata nello Stato italiano”, grazie anche all’autonomia, “che lascia sul territorio una grande parte delle entrate fiscali”. Tuttavia, permangono contraddizioni e attriti e “serve sempre buona volontà e impegno per garantire una convivenza armoniosa”. Un ruolo importante lo svolgono anche gli ambasciatori tra le culture. “Il migliore di loro, al momento, è sicuramente il tennista Jannik Sinner: parla italiano con accento tedesco. In Italia tutti lo acclamano con entusiasmo. E questo entusiasmo pesa probabilmente molto di più dell’indignazione per la fascia tolta”.

Prato, la mafia cinese e il “Made in Italy”
Un gruppo di cinesi è riuscito a frodare il casinò di Zurigo per quasi 150’000 franchi (160’000 euro). La truffa, avvenuta nel marzo 2024, è venuta a galla lo scorso febbraio, quando si è aperto il processo davanti al Tribunale distrettuale della città sulle rive della Limmat. Il punto comune degli undici protagonisti della vicenda? Tutti venivano da Prato. Il BlickCollegamento esterno si è così recato nella città toscana, dove vive una delle più grandi comunità cinesi in Europa.
Il reportage del giornale svizzero tedesco racconta come Prato sia finita sotto il controllo di una rete di imprese cinesi, alcune delle quali legate a strutture mafiose. Il 90% delle fabbriche tessili locali è oggi in mano a imprenditori cinesi, che producono abbigliamento a basso costo etichettato come “Made in Italy”. Molti operai e operaie, spesso senza conoscere l’italiano, lavorano fino a dodici ore al giorno senza pause, in ambienti insalubri e senza tutele.
Dal 2023, la città è teatro della cosiddetta “guerra delle grucce”, una faida tra clan mafiosi cinesi per il controllo del mercato tessile. Incendi dolosi, pacchi bomba e omicidi – come l’assassinio di una coppia di cinesi a Roma – sono solo alcuni degli episodi che testimoniano l’escalation della violenza. “Si tratta di strutture mafiose”, afferma Enrico Blandini, capo della Guardia di Finanza locale. Nel 2025 le forze dell’ordine hanno denunciato 486 persone e sequestrato 24’000 chilometri di tessuto. Nel quartiere chiamato “Chinatown”, la tensione è palpabile. “Non mi sento al sicuro qui”, racconta Maia, barista italiana. “Di notte è pericoloso, ci sono state risse tra gang davanti al bar”. Il reportage solleva interrogativi profondi sul futuro del “Made in Italy”, ormai svuotato di significato. “Resta solo l’etichetta”, conclude la giornalista. Un’etichetta che a volte nasconde sfruttamento, illegalità e una crisi d’identità industriale.

La fuga dimenticata
A ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale in Europa, i giornali del gruppo editoriale del Vallese pomonaCollegamento esterno ritornano su un episodio che ha avuto come epicentro il Cantone alpino: la fuga di circa 500 prigionieri di guerra australiani e neozelandesi da un campo di detenzione in Italia verso la Svizzera. L’episodio, poco noto, è stato riportato alla luce grazie alle ricerche di Katrina Kittel, figlia di uno dei fuggitivi, Colin Booth, e autrice del libro Shooting Through.
I prigionieri erano detenuti nel Campo 106 vicino a Vercelli, dove lavoravano nelle risaie. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e il conseguente caos in Italia, le guardie italiane aprirono i cancelli del campo, invitando i prigionieri a fuggire prima dell’arrivo dei nazisti. Molti scelsero di dirigersi verso nord, in Svizzera. “L’evasione dal campo fu semplice rispetto alle prove fisiche che seguirono”, scrive Kittel. Il viaggio fu durissimo: fame, freddo, scarpe rotte e la costante paura di essere catturati. Eppure, grazie all’aiuto della popolazione locale, molti riuscirono nell’impresa. “Senza il sostegno spontaneo degli italiani, la fuga sarebbe stata un’impresa disperata”, afferma Kittel. Le testimonianze che ha raccolto parlano di contadini che offrivano rifugio nei fienili, donne che dividevano il poco cibo disponibile, e ufficiali italiani che fornivano mappe e denaro.
Non tutti riuscirono a varcare le Alpi e a trovare rifugio nella Confederazione. Quelli che ce la fecero, come Colin Booth, arrivarono in Alto Vallese e furono condotti all’hotel Mattmark, nella valle di Saas, oggi sommerso da un lago artificiale. Ed è proprio da una foto di questo albergo in mezzo alle montagne, conservata tra gli oggetti di suo padre, che è partita la ricerca di Katrina Kittel. Oggi, i discendenti di quei soldati ripercorrono il “Trail to Freedom Walk”, il cammino della libertà, un itinerario escursionistico di 96 km che attraversa cinque valichi alpini.

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