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Berna diventa un “porto sicuro” per le persone migranti – cosa significa?

etichette appese
Una volta all'anno, un'esposizione in diverse città tedesche e svizzere, tra cui Berna, appende delle etichette con il nome di ogni persona morta attraversando il Mediterraneo. 51'000 nomi dal 1993, secondo la lista dei decessi dei rifugiati del gruppo UNITED. KEYSTONE

La capitale svizzera si è associata alla rete di città, soprattutto tedesche, che si dichiarano "porti sicuri" per persone migranti e rifugiate – sfidando le politiche nazionali.

Le isole Canarie hanno l’immagine di una destinazione di vacanze per il turismo europeo. Attualmente, però, stanno assistendo ad arrivi di altro tipo. In gennaio, oltre 7’000 persone provenienti dall’Africa occidentale sono approdate sulle isole spagnole, ammassate in piccole barche dopo traversate di una durata che in alcuni casi ha raggiunto i 15 giorni. Altre sono morte nel tragitto. Molte provenivano dal Senegal, Paese che sta vivendo un momento di grande agitazione sociopolitica. Le autorità delle Canarie stanno faticando a gestire la situazione, dopo un 2023 in cui era già stato registrato un aumento del 150% di questo tipo d’immigrazione.

Circa 3’500 chilometri a nordest, lontano dalle rive del mare, Berna vuole dare una mano. Questa settimana le autorità cittadine della capitale elvetica hanno dichiarato che la città è un “porto sicuro”, ovvero vogliono “dare accesso e ospitare la gente salvata in mare” e, più in generale, accogliere un numero maggiore di persone migranti. La dichiarazione è “un altro passo nell’impegno di Berna per una politica di asilo attiva e umanitaria”, si legge sul sitoCollegamento esterno della Città.

Cosa significa? Dopotutto, Berna è a 450 chilometri di distanza dalla costa marittima più vicina e non può aprire un porto. E non può nemmeno decidere autonomamente di accogliere più richiedenti l’asilo; in Svizzera, infatti, sono solo le autorità federali ad avere voce in capitolo sulle ammissioni, prima di suddividere i e le richiedenti tra i 26 Cantoni.

Parlando al quotidiano Der Bund, la ministra degli affari sociali di Berna Franziska Teuscher ammette che la dichiarazione non ha cambiato nulla in termini legali di capacità di accoglienza. Non è però solamente simbolica, precisa. Segna invece un rafforzamento degli sforzi della Città nell’includere e integrare rifugiate e rifugiati. “Forniamo un porto sicuro tramite una cultura del benvenuto”, afferma Teuscher.  

La dichiarazione è anche un modo per fare pressione affinché le autorità locali abbiano maggior voce in capitolo sulla politica migratoria, che attualmente Berna definisce “troppo limitata”. Questa rivendicazione si inserisce nel quadro dell'”Alleanza di Città e Municipi per l’accoglienza dei rifugiati”, un’iniziativa lanciata nell’aprile 2020 dalle otto più grandi città svizzere, che hanno affermato di essere disposte ad accogliere un numero di persone rifugiate maggiore di quello che era stato loro assegnato.

Tuttavia, come scrive il Dipartimento degli affari sociali di Zurigo sul suo sitoCollegamento esterno, “anche se queste città [dal 2020 il loro numero è cresciuto fino a 16] sono pronte ad alloggiare ed accogliere più rifugiati, il Governo federale non ha purtroppo accettato l’offerta”. Secondo il settimanale WOZ, l’argomentazione utilizzata a più riprese dalle autorità federali è che il quadro legislativo non lo permette.

“Condizioni indifendibili”

Prima città svizzera a dichiararsi “porto sicuro”, Berna ha portato il suo impegno oltreconfine, associandosi a un progetto organizzato da SeebrückeCollegamento esterno (“Ponte marittimo”), un gruppo tedesco della società civile che chiede “una politica migratoria basata sulla solidarietà” e la fine delle “condizioni indifendibili ai confini esterni dell’Europa”.

Seebrücke si considera parte di un “contro-movimento” locale contro le politiche migratorie nazionali ed europee. L’iniziativa “Safe Harbour” (Porto sicuro) stila una lista di otto obiettivi per le Città, tra cui l’accoglienza di più persone rifugiate, il mettersi in rete con altre località e il sostegno alle missioni di salvataggio in mare.

Finora, l’iniziativa ha 322 membri, tra cui città del peso di Belino e Monaco. Tutte tranne due (Salisburgo in Austria e ora anche Berna) sono in Germania. L’impatto concreto è difficile da stimare, ma più della metà di queste città hanno soddisfatto solo una o due delle condizioni e nessuna ha raggiunto tutti gli otto obiettivi. Ciò è dovuto, scrive l’organizzazione, soprattutto al fatto che la volontà di queste lcoalità di accogliere più persone è “bloccata” dalle politiche nazionali.

Finanziare missioni di salvataggio

Le città – e non solo quelle affiliate alla rete di Seebrücke – hanno però sfidato le politiche nazionali in altri modi negli ultimi anni. Nel 2018, Napoli e Palermo hanno dichiarato che i loro (veri) porti sarebbero rimasti aperti alle persone migranti recuperate in mare dopo il giro di vite decretato dal Governo italiano. Milano e Barcellona hanno accettato di accogliere persone definite migranti “illegali”. L’anno scorso, Berna ha intrapreso misure concrete finanziando la nave di soccorso nel Mediterraneo “Sea-Eye 4” con 70’000 franchi.

Tuttavia, tali donazioni sono considerate controverse, in quanto sostengono missioni umanitarie di soccorso che vanno contro alle politiche, per esempio, dell’Italia o della Libia, la cui guardia costiera è stata supportata dall’Unione europea.

Contattata da SWI swissinfo.ch, SOS Méditeranée, organizzazione che svolge queste missioni di soccorso, non ha commentato direttamente l’impegno di Berna. Quando si tratta di richieste politiche, afferma il suo vicedirettore generale Elliot Guy, l’ONG ribadisce il suo appello per “un meccanismo concreto di soccorso e sbarco per ridurre la mortalità in mare e facilitare la nostra missione umanitaria” – ovvero implementare un “centro di coordinazione per un soccorso marittimo efficiente e operativo” con “sufficienti risorse aeree e marittime”.

“Un’impennata di sofferenza”

A livello europeo, le politiche migratorie potrebbero in effetti diventare più coordinate – ma non nel modo chiesto da attivisti e attiviste. Appena prima di Natale, l’UE si è accordata su un “Nuovo Patto sulla migrazione e sull’asilo”, per rendere le procedure quali l’esame delle richieste d’asilo nell’Unione più uniformi.

Il piano prevede una maggiore solidarietà nel suddividere 30’000 nuove persone migranti all’anno tra gli Stati membri, ma vuole anche dare un giro di vite all’immigrazione irregolare e velocizzare il trattamento delle richieste – comprese quelle di chi è stato recuperato in mare. Il patto è stato aspramente criticato da ONG come Amnesty International, che ha messo in guardia contro “un’impennata di sofferenza” nei campi profughi ai confini esterni dell’Europa.

In Svizzera, Paese non membro dell’UE, il testo ha suscitato reazioni contrastanti. L’Organizzazione svizzera di aiuto ai rifugiati ha fatto eco alle dichiarazioni di Amnesty International, mentre l’allora ministra della giustizia Elisabeth Baume-Schneider ha accolto con favore questo “significativo passo politico”. Le autorità migratorie esamineranno ora quali aspetti della politica svizzera dovranno essere adattati al nuovo approccio europeo.

Dei segnali indicherebbero che la Confederazione stia inasprendo le sue politiche d’asilo: questa settimana, la Segreteria di stato della migrazione (SEM) ha confermato che lo scorso anno sono state rimandate nel loro Paese di origine più persone la cui richiesta d’asilo è stata respinta di quanto mai successo in precedenza. Questo anche in ragione – tra le altre cose – della cooperazione con Governi di altri Paesi, ad esempio l’Algeria. Il 15 febbraio il Consiglio federale ha annunciato che stilerà un rapporto di fattibilità sulla possibile espulsione di richiedenti l’asilo verso Paesi terzi.

La posizione del porto sicuro Berna, in questo contesto, è chiara. La città critica “una politica europea sui rifugiati basata sulla deterrenza, le barriere e il distogliere lo sguardo”.   

A cura di Reto Gysi von Wartburg/ts

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