Centinaia di ‘ndranghetisti a processo, ma non sarà una seconda Palermo
Si apre mercoledì il maxi-processo nei confronti di centinaia di presunti membri della 'ndrangheta calabrese, alcuni dei quali hanno legami anche con la Svizzera. Si tratta del più grande processo per mafia da quello tenutosi a Palermo oltre 30 anni fa. Tuttavia, con ogni probabilità il suo impatto sarà minore.
In totale sono 355 gli accusati – tra i quali si trovano dirigenti politici, funzionari di polizia e uomini d’affari. Novecento testimoni e quattrocento avvocati saranno ascoltati dal Tribunale di Vibo Valentia in un’aula allestita in un bunker a Lamezia Terme.
Il processo è in gran parte conseguenza dell’inchiesta denominata “Rinascita Scott” (guidata dal procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri) che nel dicembre del 2019 ha portato all’arresto della maggior parte degli imputati, fermati dalle forze dell’ordine in Italia, Germania, Bulgaria e Svizzera.
Tra gli accusati che hanno legami con la Confederazione troviamo un 56enne arrestato nel 2019Collegamento esterno dalla Guardia di finanza italiana assieme ad altre tre persone al confine di Chiasso mentre cercava di entrare in Svizzera con documenti sospetti, tra cui un assegno da 100 milioni di euro emesso da Credit Suisse che fungeva da garanzia per un contratto di vendita di cripto-valute.
Un altro esempio è quello di un 39enne di Vibo Valentia residente nella provincia di Varese, a ridosso del confine, dove è finito in manette con l’accusa di associazione mafiosa e danneggiamento aggravato dalle modalità mafiose per l’esplosione di colpi d’arma da fuoco ai danni di un’autovettura. Fatti, questi ultimi, avvenuti in Calabria. L’uomo è anche titolare di un’officina meccanica nel Luganese, che risulta tutt’ora in attività.
Armi e riciclaggio
Il processo è l’ennesima prova delle ramificazioni della ‘ndrangheta in Svizzera, sottolinea Madeleine Rossi, giornalista indipendente che da anni lavora sulla presenza della criminalità organizzata nella Confederazione.
Secondo gli esperti italiani, sarebbero una ventina le cosche mafiose attive in Svizzera, una cifra confermata lo scorso luglio dalla polizia federale (Fedpol), ma che si teme possa essere ben più alta.
La ‘ndrangheta, ritiene la Fedpol, non è diffusa solo nei cantoni contigui all’Italia (Ticino, Grigioni e Vallese), ma in tutto il Paese. Basti ricordare la celebre cosca di Frauenfeld, località del cantone Turgovia. La vicenda è tornata quest’anno di attualità per l’assoluzione di tre dei principali imputati da parte della Cassazione italiana.
L’attività della ‘ndrangheta nella Confederazione è legata in particolare al traffico di armi e al riciclaggio di denaro. Il provento di crimini commessi in Italia viene reinvestito in Svizzera soprattutto nel settore immobiliare o della ristorazione.
PLACEHOLDERNon è una nuova Palermo
Per dimensioni, il maxi-processo che prende il via mercoledì è secondo solo a quello di Palermo, che iniziò nel 1986 e portò alla condanna di 338 esponenti di Cosa Nostra.
Tuttavia, il contesto è completamente diverso rispetto a 35 anni fa. Allora era un’epoca di sangue e stragi, un’epoca a cui il maxi-processo ha contribuito a mettere fine.
Ai tempi “c’era un carico emotivo in Italia molto più forte, sia da parte della popolazione che da parte della giustizia”, spiega Madeleine Rossi, “la ‘ndrangheta non ha fatto saltare in aria magistrati o giornalisti. Non dico che quello che fanno non è grave, ma le mafie sono evolute”.
Alla sbarra troviamo un’entità totalmente differente dalla Cosa Nostra degli anni ’80 e molto più elusiva. Basti pensare che il Codice penale italiano nomina esplicitamente la ‘ndrangheta solo dal 2010.
“Il problema è che ha una capacità di rigenerazione terrificante”, dice la giornalista, ricordando che lo stesso Gratteri definisce la ‘ndrangheta come “la malapianta”.
“Domani si apre il processo. Ci sono quindi 300 persone che mancano nell’organizzazione, ma nel frattempo ne sono entrate altre 300, se non 500, per sostituirle. Il maxi-processo di Palermo ha saputo dare un colpo durissimo a Cosa Nostra, ma questo non darà un colpo così duro alla ‘ndrangheta”.
Un rischio che vale la pena prendere
Il processo rappresenta comunque una vittoria importante per la giustizia italiana e servirà da cassa di risonanza per sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale sulla minaccia rappresentata dalla ”ndrangheta, una minaccia molto spesso sottovalutata.
Ma siamo solo all’inizio e tutto potrebbe finire con un buco nell’acqua, teme Madeleine Rossi che auspica una rapida risoluzione del processo.
“Il rischio è che potrebbe durare anni e che alla fine vengano emesse poche condanne. Ma è un rischio che vale la pena prendere”, conclude la giornalista.
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