Il sogno irrealizzato della Silicon Valley di Verbania
A Verbania, a metà anni ‘90, Aldo Rossi, il primo architetto italiano a vincere il Pritzker Prize, realizzò il Tecnoparco del Lago Maggiore. Doveva essere un luogo dove fare innovazione, ma così non è stato. Oggi ci vive suo figlio, un artista che ha trasformato un ex capannone industriale nel loft dove realizza le sue opere.
“Il Tecnoparco sarebbe dovuto essere una sorta di Silicon Valley di Verbania, ma il progetto non è mai decollato come sperato”. Fausto Rossi ha 55 anni e da più di quaranta disegna soldatini: è un artista. Nel Tecnoparco, o meglio Parco Tecnologico del Lago Maggiore, oggi vive e lavora: abita in uno dei capannoni del complesso industriale progettato da suo padre Aldo, uno degli architetti più importanti del secolo scorso.
“Vivo qui un po’ per caso, nel senso che non ho scelto di comprare questo spazio perché è stato progettato da mio padre Aldo Rossi, ma perché è perfetto per la vita di un artista: tranquillo, spazioso… È vero, il luogo è un po’ strano, un posto di confine tra campagna e paesaggio industriale, ma non lo trovo degradato”. Cento metri più in là della porta di casa sua, ci sono gli uffici della Provincia del Verbano Cusio Ossola, la sede della Protezione Civile, anche un bar. Insomma, non è un luogo abbandonato, ma non è neppure una vera città.
Il progetto di Aldo Rossi
Una città, o meglio una città di fondazione in miniatura, il Parco Tecnologico sarebbe però dovuto esserla, almeno nello schema immaginato e disegnato dall’architetto Aldo Rossi: l’impianto a croce, tipico delle città romane; un’alta torre con orologio a dominare sull’intera area, che copre circa 180 mila metri quadrati; i capannoni come quartieri, l’edificio chiamato Centro servizi come fulcro della vita pubblica; e poi le serre, un portale d’ingresso monumentale con ai lati una vasca d’acqua e una tribuna adibita a teatro, questi ultimi due mai realizzati.
“L’intenzione di Rossi era quella di realizzare una vera e propria cittadella – conferma Michele Caja, docente presso il Dipartimento di Architettura al Politecnico di Milano –. Lo testimonia la varietà tipologica di edifici che compongono l’area”, proprio come accade in un vero centro urbano che si compone di tanti elementi diversi. “Il viale principale, ad esempio, richiama al cardo romano o alla calle mayor, mentre i portici qui si trasformano in una serie di ripetizioni di pilastri in cemento alti 15 metri”.
Nascita e rapido declino del Parco Tecnologico
Quello del Lago Maggiore fu il primo Parco Tecnologico del nord Italia: il progetto risale al 1992, i primi schizzi dell’architetto Rossi all’inizio del 1993. Per occuparsi della progettazione, della costruzione e della gestione del complesso nacque Tecnoparco del Lago Maggiore spa, società pubblica con due soci (Finpiemonte, con il 51% delle quote, e Saia con il 49%) che dal 2015 è in liquidazione. Le ragioni dell’insuccesso? Diverse, ma riconducibili probabilmente alla difficoltà di attrarre realtà in grado di fungere da traino per l’intero complesso, di garantire una crescita, di innescare un circolo virtuoso.
“Il polo è nato con una vocazione scientifico-tecnologica, di ricerca, ma nel tempo si è orientato verso attività artigianali e produttive”, spiega l’ingegner Salvatore Carbone, liquidatore della società TecnoparcoCollegamento esterno. Il suo compito, oggi, è quello di “mettere in sicurezza la società e scongiurarne un ulteriore depauperamento, liquidando il patrimonio”. In altre parole, Tecnoparco srl sta vendendo gli edifici e le aree di cui è ancora proprietaria: “Attualmente in vendita abbiamo due fabbricati da 1680 metri quadrati e un fabbricato da 1280 mq” spiega, mentre tutto il resto è già stato ceduto ad altri soggetti, alcuni pubblici (è il caso della Provincia del Vco e della Protezione Civile della Regione Piemonte) e altri privati.
Non tutti questi spazi sono però occupati, perché nel frattempo alcune società che avevano acquistato fabbricati e capannoni sono a loro volta falliti. Ciononostante, Carbone è ottimista: “L’impressione, comprovata dall’attività (di liquidazione, ndr) che stiamo facendo, è che il polo si stia riprendendo. Gli spazi liberi stanno trovando occupazione, le aziende stanno tornando, insomma è un’area che negli ultimi anni sta trovando nuova vitalità. Dal canto nostro, cerchiamo di favorire l’insediamento di aziende nuove che possano creare sviluppo e occupazione per il territorio”.
L’era dei Parchi Tecnologici italiani: successo o fallimento?
Ancora oggi, appena fuori dal portale d’ingresso dell’area del Tecnoparco di Verbania, campeggia un cartello su cui si legge che “il progetto è stato cofinanziato dal Fondo europeo di sviluppo nazionale”. Oltre ai fondi comunitari, una grossa fetta dell’investimento arrivò dalla Regione Piemonte: erano d’altronde gli anni in cui i Parchi Scientifici e Tecnologici sorgevano un po’ dappertutto: solo in Piemonte, intorno al Duemila ne nacquero due a Torino, uno a Colleretto Giacosa in Canavese, un’altro a Tortona nell’Alessandrino e infine anche uno a Cuneo. In una nota della Giunta Regionale dell’aprile del 2004Collegamento esterno, si legge che nel decennio precedente, la Regione aveva investito “circa 165 milioni di euro”, convinta che i Parchi Scientifici e Tecnologici sarebbero stati “un tassello tra i più promettenti per il futuro produttivo del Piemonte”.
Ma che cosa sarebbero dovuti essere questi parchi? E, soprattutto, hanno funzionato oppure no? Si trattava, come si legge nella nota, di “insediamenti di imprese che, in sinergia e collaborazione con centri di ricerca e laboratori, favoriscono il trasferimento di know how verso il mondo dell’industria, facilitando la nascita di nuove imprese. Nei confronti delle piccole medie imprese piemontesi, i parchi svolgono una funzione di trascinamento e di incentivo a ricercare nuove forme di sviluppo, efficienza e competitività”.
Nel caso del Parco Tecnologico del Lago Maggiore, l’intenzione era quella di reagire alla crisi dei settori industriali tradizionali (in particolare tessile, chimico, siderurgico) favorendo lo sviluppo di piccole e medie imprese basate sull’innovazione soprattutto per quanto riguarda le “biotecnologie per la florovivaistica, le tecnologie per l’ecologia, la sperimentazione di nuovi materiali, l’automazione industriale, l’automazione di edifici, la componentistica industriale”.
A Verbania tali speranze non si sono concretizzate, ma non è stato l’unico Parco Tecnologico e Scientifico piemontese ad andare in difficoltà. Anche il Tecnogranda di Cuneo (in liquidazione dal 2018) e il Virtual Reality and Multimedia Park di Torino (in liquidazione dal 2013) non ebbero particolare fortuna. Più soddisfacenti, al contrario, le esperienze dell’Environment Park di Torino, del Bioindustry Park in Canavese e del Pst Valle Scrivia a Tortona.
Non fu però certamente solo il Piemonte a veder sorgere realtà di questo tipo: “La stessa formula si replicò in tutta Italia, dalla Sicilia al Trentino, dalla Liguria alla Sardegna” spiega Giorgio Ciron, direttore di InnovupCollegamento esterno, associazione milanese che unisce i diversi soggetti che fanno parte dell’ecosistema italiano dell’innovazione. “Le vicende sono state sicuramente alterne, nel senso che alcuni parchi hanno avuto più successo di altri. Dove funzionano, lo fanno particolarmente bene: è il caso, ad esempio, di TrentinoSviluppo, Toscana Life Sciences, Kilometro Rosso a Bergamo e ComoNext”. Quali sono i fattori del successo? “Essere molto specializzati e quanto più possibile significativi per il territorio. Quelli più piccoli, al contrario, fanno fatica a essere efficaci”. Oltretutto, aggiunge Ciron, negli ultimi anni “sono nati incubatori, acceleratori d’impresa, incubatori universitari, una serie di altri soggetti che fanno innovazione secondo modalità diverse da quelle dei Parchi Scientifici e Tecnologici del passato. E poi la nuova frontiera sono i venture builder, società che creano startup a tavolino”. Il modello del parco, insomma, pare un po’ superato, al punto che “è un’esperienza che oggi non viene più replicata”.
Dall’innovazione all’arte
Torniamo allora a Verbania e al complesso di Aldo Rossi: un piano di rilancio dell’area non c’è, proprio perché attraverso la liquidazione verrà a mancare la regia di un soggetto unico che coordini le imprese che si insedieranno al Tecnoparco. La direzione intrapresa, dunque, è quella della trasformazione in una semplice area industriale. Un’area che conserva la peculiarità di portare la firma di un architetto di fama mondiale come Aldo Rossi, e dove continuerà a vivere suo figlio Fausto, che ha adibito a residenza e atelier un ex laboratorio da 800 metri quadrati.
“Lo spazio non mi manca, anche se non me ne servirebbe così tanto – ammette l’artista Fausto Rossi, –. I miei lavori sono più simili a miniature”. Un foglio di carta, una penna a china dal tratto sottilissimo e una pazienza infinita nel colorare a tempera, acrilico o acquarello i protagonisti delle sue battaglie: così lavora l’artista nato a Milano e verbanese d’adozione.
Ma non gli si dia del guerrafondaio: “Sono un pacifista, non mi piace la guerra e i miei disegni vogliono trasmettere altro”. Che cosa? “Sono giocosi, nel senso che assomigliano alle fantasie dei bambini quando giocano con i soldatini. Loro mica vogliono fare la guerra per davvero”.
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