La Val Venosta e la benedizione-maledizione del lavoro frontaliero
In Val Venosta quasi un quinto della popolazione attiva lavora in Svizzera. Il fenomeno del frontalierato ha avuto un impatto positivo sull'economia di questa regione del Trentino-Alto Adige che confina con la Val Monastero. Ma anche qui la mancanza di manodopera comincia a farsi sentire.
Percorrendo in auto verso est la bassa Val Venosta, in Alto Adige, colpisce la dimensione ariosa, lo spazio occupato dagli ampi prati che si inerpicano sulla prima linea di montagne, protette alle spalle da colossi come le Alpi Venoste a Nord, e soprattutto il gruppo dell’Ortles a Sud.
Qui, fino al XVIII secolo, la lingua ufficiale era il romancio e gli scambi commerciali e culturali con le valli svizzere di Mustäir (Monastero) e dell’Engadina erano la norma.
Oggi la lingua più parlata è il tedesco ma il confine, come molti confini in tempo di pace, continua a essere luogo di scambio. Attraversarlo, per molti lavoratori e lavoratrici sudtirolesi, negli ultimi decenni ha significato evitare un impiego sicuro in agricoltura – ma non sempre facile, non sempre gratificante – per trovare in terra elvetica occasioni di lavoro diverse e con migliori condizioni economiche.
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Oggi i pendolari transfrontalieri che percorrono ogni giorno la Val Monastero per andare a lavorare in Svizzera sono tra 1’000 e i 1’300, quasi un quinto di tutti la popolazione attiva residente in Val Venosta.
Sono soprattutto medici, infermieri, artigiani, muratori e carpentieri, ma anche piccoli imprenditori.
Una questione economica, ma non solo
Oltre al versante svizzero della Val Monastero, le destinazioni principali sono anche l’Engadina e la zona extradoganale di Samnaun. In comuni come Malles, Sluderno, e Prato allo Stelvio circa il 15% dei lavoratori e delle lavoratrici ha un impiego in Svizzera, con il record che spetta a Tubre, ultimo paese prima del confine, dove la percentuale della manodopera frontaliera tocca il 40%.
L’impatto sull’economia locale è notevole, sia perché queste persone che lavorano in Svizzera spendono a casa molti dei loro soldi, sia per i ristorni fiscali che finiscono nelle casse dei comuni italiani di confine.
Non è solo una questione economica, spiega Gerlinde Warger, portavoce dell’Associazione dei frontalieri della Val Venosta: “Anche sotto altri aspetti le condizioni sono migliori rispetto all’Alto Adige. Ciò significa che hai migliori prestazioni sociali, tranne che per una giovane donna: se ha voglia di avere figli, allora le consiglierei piuttosto di restare a lavorare in Italia, perché il congedo di maternità in Svizzera non è soddisfacente”.
Ci sono anche aziende che dall’Alto Adige hanno deciso di trasferire in Val Monastero la loro sede principale. È il caso di Lico, che produce pavimenti e scale. “La prima cosa che apprezzi è la burocrazia ridotta all’osso — spiega Alfred Lingg, titolare di Lico — poi è più facile anche espandere il proprio business all’estero, e si è obbligati a controllare meglio i propri affari, non ci sono ad esempio tutti i contributi che in Italia vengono spesso dati ad aziende già morte”.
Altri sviluppi
Le conseguenze del nuovo accordo sui frontalieri
In Val Venosta manca manodopera
Franchigia doganale, riforma fiscale transfrontaliera e carenza di manodopera sono alcuni dei temi di cui si è parlato alla 51° Conferenza dei frontalieri che si è tenuta il 24 maggio a Sluderno, cui hanno partecipato un centinaio di persone tra cui la presidentessa dell’associazione “Südtirol in der Welt” Luise Pörnbacher, il vicepresidente del patronato KVW Josef Bernhart e il presidente della Provincia autonoma di Bolzano Arno Kompatscher.
Quest’ultimo a proposito della carenza di personale in tutti settori produttivi della valle ha ricordato che, come ogni medaglia, anche la vita del frontaliere ha due facce: va in Svizzera per ottenere migliori condizioni di lavoro, ma con l’effetto di lasciare la Val Venosta senza lavoratori qualificati, come sta accadendo soprattutto nel settore della sanità.
“In Val Venosta per decenni è mancato il lavoro — sottolinea Alfred Lingg — poter venire in Svizzera a lavorare era una benedizione e lo è anche oggi, anche perché noi non mangiamo i soldi che guadagniamo qui ma li investiamo in Italia, ad esempio comprando casa, però per la nostra terra questa benedizione è anche una maledizione: la mancanza di personale specializzato e qualificato ha raggiunto numeri preoccupanti, manca sia la quantità che la qualità”.
Il nodo dolente della sanità
“Senza stipendi adeguati la situazione in Val Venosta non cambierà”, amava ripetere l’ex portavoce dell’Associazione dei frontalieri della Val Venosta Sepp Trafoier, che ora ha passato il testimone a Gerlinde Warger, e proprio intervenendo sui salari lo Stato italiano vorrebbe contenere la fuga in Svizzera di molti professionisti della sanità, ma in un modo che non piace ai transfrontalieri.
La legge finanziaria italiana impone alle singole regioni di definire un contributo per la spesa dei servizi sanitari dovuta dai loro frontalieri (residenti cioè in quella regione), contributo che la Regione Lombardia, ad esempio, ha definito in una quota compresa tra il 3 e il 6% da applicare dal 2024 sul salario netto percepito dai lavoratori occupati in Ticino e nei Grigioni.
“Su questo ancora non è stato deciso nulla e dobbiamo accordarci insieme alle altre regioni dove ci sono molti più frontalieri che da noi, cioè la Lombardia o il Friuli”, ha precisato Arno Kompatscher.
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