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Banche svizzere, “Cambino per evitare guai in Italia”

Banche svizzere alle prese con la nuova offensiva del fisco italiano
Banche svizzere alle prese con la nuova offensiva del fisco italiano Keystone

Il questionario fatto recapitare lo scorso dicembre alle banche svizzere dal fisco italiano ha messo in allarme la piazza finanziaria elvetica, in particolare quella ticinese.

La richiesta di informazioni da parte dell’Agenzia delle entrate sulle loro attività nella penisola viene ritenuta un’indebita ingerenza e negli ambienti finanziari si invoca un intervento di Berna a tutela dei legittimi interessi degli operatori elvetici.

Tutto è iniziato con la Voluntary disclosure

Ma quale che sia la strategia che alla fine sarà adottata dalla Confederazione, resta un fatto inconfutabile cui la piazza svizzera deve inevitabilmente fare i conti: con la Voluntary disclosure del 2015 (prorogata nel 2017) – l’autodenuncia spontanea dei conti all’estero non dichiarati a Roma da parte dei contribuenti italiani – le autorità fiscali sono entrate in possesso di tutta una serie di dati bancari che, grazie anche allo scambio automatico (il Common Reporting standard dell’Ocse) entrato in vigore l’anno scorso, ha consentito di far luce sull’attività degli intermediari finanziari elvetici nella penisola, su cui ora il fisco intende rivalersi.

“Si discuterà a lungo sul concetto di stabile organizzazione di carattere personale in Italia.”

Le autorità del Belpaese ritengono infatti di vantare crediti d’imposta derivanti dagli utili conseguiti in Italia da istituti finanziari stranieri, costituiti in particolare da interessi da capitale (in genere sotto forma di prestiti a residenti italiani) e da commissioni bancarie.

Tutto, osservano i fiscalisti, ruota attorno al concetto giuridico di “stabile organizzazione”, che presuppone attività continuative su suolo italiano da parte di intermediari finanziari con sede all’estero, che li renderebbero assoggettabili alle norme fiscali di Roma. Ma ovviamente non c’è ancora una giurisprudenza su questo nuovo approccio dell’amministrazione italiana e vi sono molti aspetti da chiarire.

Indebita ingerenza?

Sul versante elvetico si obietta che in questa materia non sono legittime azioni unilaterali ed è indispensabile coinvolgere, anche dal profilo giuridico, Berna. In base alla Convenzione italo-svizzera contro la doppia imposizione (Cdi) aggiornata nel febbraio 2015, sostengono gli ambienti bancari – supportati sulla stampa locale tra gli altri dal responsabile del Centro competenze tributarie della Supsi (Università professionale della Svizzera italiana) Samuele Vorpe, in caso di controversie è prevista all’articolo 26 Cdi la creazione di una commissione mista formata da rappresentanti dei due paesi. Inoltre le comunicazioni, viene sottolineato, devono avvenire tra le autorità fiscali dei due paesi e non tra un soggetto privato e il fisco straniero.

Convenzione contro la doppia imposizione 9.3.1976 (protocollo di modifica 23.2.2015) tra Italia e Svizzera

Art. 26, capoverso 4

“Le autorità competenti degli Stati contraenti potranno comunicare direttamente fra di loro ai fini del presente articolo. Una commissione mista, formata di rappresentanti designati dalle stesse autorità competenti, avrà competenza per regolare amichevolmente i casi controversi risultanti dall’applicazione e dalla interpretazione della Convenzione. Detta commissione mista si riunirà, alternativamente, in uno degli Stati contraenti, ogni qual volta che una delle autorità competenti lo richieda.”

Ma per il momento non c’è ancora stata una presa di posizione ufficiale dell’Associazione bancaria ticinese, a differenza di quanto fatto dall’analoga organizzazione monegasca, anch’essa interessata dalla nuova strategia delle autorità italiane. E gli operatori finanziari non sanno come comportarsi nei confronti di possibili futuri procedimenti in Italia. Per questo abbiamo chiesto un parere all’ex procuratore ticinese e professore esperto di questioni fiscali Paolo Bernasconi.

Il commento di Paolo Bernasconi

tvsvizzera.it: Non ritiene legittimo che l’Italia possa chiedere alle banche elvetiche il pagamento di imposte per attività finanziarie, emerse in seguito alla voluntary disclosure, che in base alla sua legislazione sono soggette a tassazione?

Paolo Bernasconi: Le regole fiscali applicabili a banche con sede in Svizzera che operano in territorio italiano sono ovviamente quelle italiane, tenendo però conto di tutti gli accordi internazionali, sia multilaterali che bilaterali. Nell’applicazione del proprio diritto fiscale, l’autorità italiana deve quindi rispettare, anzitutto, la convenzione italo-svizzera contro la doppia imposizione. Per l’interpretazione di aspetti critici, come per esempio la definizione degli interessi sui quali prelevare l’imposta nella veste di “sostituto d’imposta”, ci si riferisce ai commentari dell’OCSE e alla relativa dottrina. Nel caso di disaccordo fra i due paesi per l’interpretazione di determinate norme, può essere avviata una procedura arbitrale.

Le banche svizzere hanno regolato i conti verso il fisco di Stati Uniti, Germania e Francia. Non è giunto il momento di sanare eventuali addebiti tributari anche verso Roma?

Con gli Stati Uniti e con la Germania determinate banche svizzere hanno concluso accordi per mettere fine a procedure per concorso nei reati fiscali commessi da parte di loro clienti evasori americani oppure tedeschi. Con la Francia si è appena concluso un processo pilota contro UBS. Le recentissime iniziative fiscali italiane contemplano tutt’altro: il mancato pagamento di imposte riguardo a diverse forme di utili incassati da banche svizzere in territorio italiano, sfuggiti all’assoggettamento fiscale italiano.

Condivide l’equiparazione banche svizzere-contribuente italiano fatta dal fisco di Roma? Vi sono vincoli di tipo legale nell’ordinamento svizzero che impediscono alle banche elvetiche di rispondere alla famosa lettera inviata a dicembre dall’Agenzia delle Entrate nella quale si chiedono informazioni sulle loro attività in Italia?

Si discuterà a lungo sul concetto di stabile organizzazione di carattere personale in Italia: infatti, secondo il fisco italiano, le attività svolte da parte di consulenti di banche svizzere hanno generato utili sui quali sono dovute le imposte a favore del fisco italiano. Siccome nel questionario dell’agenzia delle entrate e della Guardia di Finanza si chiedono i nomi di clienti e i nomi di consulenti di banche svizzere, queste potranno opporre il divieto di fornire direttamente queste informazioni alle autorità fiscali estere. Si tratta infatti di una condotta punibile penalmente in base all’articolo 273 del codice penale svizzero. Si potrà anche argomentare il divieto di rispondere a richieste dirette, da parte del fisco italiano, indirizzate a banche svizzere senza passare attraverso i canali previsti dagli accordi internazionali. Si tratta di un comportamento parimenti punibile secondo il codice penale svizzero (articolo 271 CP).

A questo punto le autorità fiscali italiane potrebbero chiedere al fisco svizzero di imporre alle banche svizzere di rispondere al suddetto questionario. In tal caso le banche svizzere potrebbero chiedere la decisione da parte del Tribunale amministrativo federale e successivamente, in un caso così importante come questo, anche la decisione del Tribunale federale.

D’altra parte, non è escluso che qualche banca, che si trova in una situazione più critica di altre, decida di notificarsi spontaneamente presso il fisco italiano in modo da calcolare gli importi eventualmente dovuti e pagarli, evitando così di dover rispondere al questionario. Ma su questo punto le situazioni sono talmente diverse per cui è difficile formulare risposte di carattere generale.

“Le banche svizzere si devono organizzare il proprio modello di attività sul territorio italiano in modo da evitare di essere oggetto di procedure di contravvenzione fiscale oppure, peggio ancora, di procedimento penale.”

Non ritiene che per ottenere l’autorizzazione ad operare stabilmente e senza vincoli sul mercato italiano – una delle principali rivendicazioni delle banche ticinesi – sia indispensabile sanare il passato.

Qui non si tratta di sanare il passato. Si tratta di organizzare un modello di business che sia compatibile con la definizione di stabile organizzazione che viene usata da parte del fisco italiano. Le banche svizzere si devono organizzare il proprio modello di attività sul territorio italiano e con la clientela italiana in modo da evitare di essere oggetto di procedure di contravvenzione fiscale oppure, peggio ancora, di procedimento penale, come quello avviato dalla procura della Repubblica di Milano mediante le perquisizioni del 18 novembre 2018 nei confronti di 18 consulenti di una banca con sede a Lugano. Si tratta di un obbligo previsto anche dalla legislazione svizzera sulle attività finanziarie: gestire il proprio rischio legale e reputazionale, in modo da evitare che la propria attività venga svolta in violazione di norme nazionali. La FINMA si riferisce tuttora continuamente alla propria presa di posizione scritta del 10 ottobre 2010 riguardante i rischi collegati alla cosiddetta attività transfrontaliera (Cross Border Risk).

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