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Matteo Messina Denaro, il boss che fa tremare i palazzi del potere

due carabineri attorno a un uomo
Dopo quasi 30 anni di latitanza, Matteo Messina Denaro è stato arrestato lunedì in una clinica privata di Palermo. Keystone / Carabinieri

Collaborerà? Non collaborerà? I segreti custoditi dal padrino della mafia arrestato lunedì sono in grado di condizionare le sorti della politica e dell’imprenditoria nell’isola e nell’intera nazione.

La provincia di Trapani è ancora più levantina e misteriosa del resto della Sicilia, con uno scrigno di antica ricchezza che l’ha resa sempre porto franco di scambi tra imprenditoria e mafia, spesso mediati dalla massoneria. Non a caso, negli anni Ottanta venne ambientata qui la serie televisiva La Piovra che per prima mostrò al mondo come Cosa nostra non vivesse solo di coppole e lupare ma fosse già entrata nelle banche e nei partiti politici.

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Su questo territorio ha regnato Matteo Messina Denaro, l’ultimo padrino della Cupola che dopo trent’anni di latitanza dorata è stato arrestato lunedì scorso dai carabinieri del reparto speciale Ros.

Un boss vecchio stile

Il boss più ricercato di tutti è stato tradito dai problemi di salute: i militari lo hanno bloccato mentre faceva la coda allo sportello di accettazione di una clinica oncologica di Palermo, in attesa di sottoporsi ad una chemioterapia.

Messina Denaro è un boss vecchio stile, che non ha mai rinunciato ai lussi: dall’orologio Franck Muller da 35’000 euro che indossava al momento della cattura agli abiti firmati, arrivando a spendere 700 euro per una camicia. Fama di play boy, confermata dalle pasticche di Viagra ritrovate nel suo covo; vacanze nei migliori alberghi di Forte dei Marmi, ha continuato a sedersi ai tavoli di ristoranti di livello pure durante la fuga.

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due carabinieri fanno la guardia davanti a un edificio

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I legami di Messina Denaro con la Svizzera

Questo contenuto è stato pubblicato al I legami con la Svizzera del boss di Cosa Nostra, arrestato lunedì, erano di origine sopratutto finanziaria.

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Adesso si ritrova rinchiuso in un penitenziario di massima sicurezza, sottoposto all’isolamento del 41 bis ossia il regime di carcere duro previsto per i capimafia: una condizione estremamente pesante per un sessantenne, con un serio tumore e nessuna esperienza di prigione, che ha accumulato numerose condanne all’ergastolo e sa di avere davanti soltanto sofferenza.

Responsabile di quasi 60 omicidi

Per questo all’indomani dell’arresto si è cominciato a discutere in Italia della possibilità di una sua collaborazione con l’autorità giudiziaria, alimentando polemiche sull’eventualità che il boss abbia in qualche maniera deciso di arrendersi allo Stato. Gli altri grandi capi di Cosa nostra, come Totò Riina e Bernardo Provenzano, hanno affrontato la detenzione senza pentimenti fino alla morte. Ma i due erano corleonesi, chiamati in dialetto siciliano viddani ossia contadini per le abitudini spartane e la vocazione al sacrificio.

Pur condividendo con loro la stessa indole feroce – è stato ritenuto responsabile di quasi 60 omicidi, incluse donne e bambini -, Messina Denaro appartiene ad una tradizione diversa, quella trapanese, dove la vicinanza tra boss e baroni li ha resi simili nelle comodità. Gli è stato spesso rinfacciato come, contrariamente ai corleonesi, non avesse dovuto conquistare il rango di padrino impugnando le armi ma l’avesse direttamente ereditato dal padre. Insomma, un uomo di una pasta diversa che oggi, stanco e malato, potrebbe cedere alla tentazione del pentimento e chiudere definitivamente la stagione più oscura di Cosa nostra.

Brivido nei palazzi del potere

Questo scenario sta creando un brivido che si trasmette in tutti i palazzi del potere italiano. Perché i segreti che Messina Denaro custodisce sono in grado di condizionare le sorti della politica e dell’imprenditoria nell’isola e nell’intera nazione. La sua carriera criminale lo rende in grado di fare luce sugli episodi più inquietanti degli scorsi decenni, a partire dall’omicidio di Piersanti Mattarella, presidente della Regione Siciliana e fratello dell’attuale capo della Stato, assassinato nel 1980 da killer mai identificati tanto da far ipotizzare più volte che si trattasse di terroristi neofascisti assoldati dalle cosche. Ma soprattutto è l’unico protagonista vivente di quella strategia stragista che ha cambiato la storia del Paese, portando all’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e delle loro scorte.

Ruolo chiave nella strategia stragista

Messina Denaro ha avuto un ruolo chiave negli attentati del 1993: le bombe esplose a Firenze a pochi metri dagli Uffizi, poi nel centro di Milano e in quello di Roma, arrivando a sfregiare la basilica pontificia di San Giovanni in Laterano. Attacchi che – come hanno scritto i giudici – erano stati messi a segno dai mafiosi per realizzare un disegno eversivo, radendo al suolo la credibilità delle istituzioni e del Parlamento in modo da aprire la strada a soggetti più vicini alle istanze di Cosa nostra.

Come ne Il Gattopardo, il romanzo di Tomasi di Lampedusa, l’obiettivo era ancora una volta “cambiare tutto perché nulla cambi”. Pochi mesi dopo, il re delle televisioni e proprietario del Milan Silvio Berlusconi ha creato dal nulla Forza Italia e ha vinto le elezioni: ancora oggi il suo partito è nella maggioranza che esprime il Governo di Giorgia Meloni, anche se spesso in questi giorni si mostra in dissenso con la giovane premier.

Le inchieste su chi fossero i referenti politici delle stragi restano aperte. E un anno fa, Berlusconi e il suo principale collaboratore – Marcello Dell’Utri, già condannato per concorso esterno in associazione mafiosa – sono stati iscritti nel registro degli indagati dalla procura di Firenze in relazione ad un presunto ruolo di “mandanti esterni” degli attentati. Già in passato era stata formulata quest’ipotesi investigativa, successivamente archiviata.

Messina Denaro può fare luce su questa e su altre vicende oscure. Ad esempio, l’attuale governatore della Regione Siciliana ed ex presidente del Senato, Renato Schifani, anche lui di Forza Italia, è stato sottoposto ad indagini poi archiviate per i rapporti con il capo della famiglia di Brancaccio: un alleato di ferro del padrino appena finito in cella.

Nella sua lunga latitanza il boss trapanese ha intessuto affari consistenti – solo i carabinieri gli hanno sequestrato beni per 150 milioni di euro – investendo in settori innovativi, come i parchi eolici e fotovoltaici impiantati nella “sua” provincia, grazie ad un tesoro nascosto da un suo prestanome incensurato anche nelle banche svizzere. Non sorprende che il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia abbia dichiarato: “È stato protetto da una borghesia mafiosa”. Una zona grigia di imprenditori, professionisti, politici e funzionari pubblici pronti a mettersi al servizio dell’ultimo padrino, in Sicilia e non solo. Che adesso tremano davanti alla prospettiva della sua confessione.

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