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Più di una persona su tre in Svizzera lavora a tempo parziale 

lavoro, ufficio
“Il sistema previdenziale e di welfare su cui si basa la nostra società è costruito attorno al tempo pieno", spiega la professoressa Antonioli Mantegazzini. Keystone/Martin Ruetschi

Il 38,7% delle persone occupate lavora a tempo parziale. In Europa, la Svizzera si piazza così al secondo posto dietro ai Paesi Bassi, nona l'Italia. Questa modalità di impiego è molto più diffusa tra le donne che tra gli uomini, e non è sempre una questione di scelta. 

La percentuale di coloro che in Svizzera svolgono un lavoro non a tempo pieno – ossia inferiore al 90% – è in costante aumento. Tanto che, dal 1991, la percentuale è salita di 13,3 punti percentuali, attestandosi al 38,7% di tutte le persone occupate. Una cifra che corrisponde a 1,9 milioni di lavoratrici e lavoratori. A rivelarlo sono gli ultimi datiCollegamento esterno dettagliati forniti dall’Ufficio federale di statistica (UST), raccolti fino alla fine del secondo trimestre del 2024. 

Tre quarti delle madri lavoratrici sono a tempo parziale 

Malgrado il divario si stia lentamente accorciando, tra le lavoratrici che sono anche madri la quota di occupate a tempo parziale sale a tre su quattro rispetto a quelle che lavorano a tempo pieno. Per esempio, il 74,9% delle madri con un figlio o una figlia che vive nella stessa economia domestica lavora a tempo parziale, rispetto al 14,3% dei padri nella stessa situazione.

Indipendentemente dal sesso, la percentuale di lavoro a tempo parziale tende a diminuire con l’aumentare dell’età del figlio o della figlia più giovane: per i padri, scende dal 16,4% quando il figlio o la figlia più giovane ha meno di 4 anni al 10% quando il figlio o la figlia più giovane ha dai 13 ai 17 anni. Per le donne, il valore più alto è del 79,2% quando il figlio o la figlia più giovane ha tra i 4 e i 12 anni, e scende al 66,1% quando ha tra i 18 e i 24 anni. 

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Chi si dedica alla famiglia e chi alla formazione 

Una distribuzione delle percentuali così differente tra i sessi è anche dovuta a ragioni molto diverse tra loro. I più recenti dati dell’UST ritraggono infatti la fotografia di una società in cui, quando sono le donne a diminuire la percentuale, nella maggior parte dei casi lo fanno per dedicarsi alla cura della prole (questa ragione è stata annoverata nel 32,3% delle donne che lavoravano a tempo parziale e dall’11,8% degli uomini); oppure per sopperire ad “altri impegni familiari o personali” (ragione citata dall’11,8% delle donne contro il 3,8% degli uomini). 

Gli uomini che lavorano a tempo parziale hanno indicato come motivo la formazione e l’aggiornamento professionale con una frequenza doppia rispetto alle donne (14% contro 7,7%). Una ragione che può essere considerata come un investimento nella propria carriera lavorativa. Inoltre, uno tra i motivi più importanti citato dai lavoratori è una mancata necessità finanziaria o un mancato interesse verso l’impiego a tempo pieno.

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Il fattore sottoccupazione 

Tra gli elementi che emergono dalle rilevazioni dell’UST è inoltre interessante notare come, nel caso delle donne, il lavoro a tempo parziale non è sempre una scelta.  

Nel 2024, 254’000 persone avrebbero voluto lavorare di più e sarebbero state disponibili ad assumere un grado di occupazione superiore entro tre mesi. Con una quota di persone sottoccupate rispetto alla popolazione attiva del 7,5%, le donne ne sono più colpite da questa dinamica rispetto agli uomini (2,8%). 

>>> Leggi anche l’approfondimento di Swissinfo: “L’arma a doppio taglio del lavoro a tempo parziale”

Un sistema previdenziale costruito attorno al tempo pieno 

“Alla fin fine, viene sempre fatto un calcolo di convenienza in base al proprio nucleo famigliare. Malgrado la corrente tenda in generale verso un desiderio di maggiore tempo libero, la scelta cambia molto in base al fatto se si vive da soli, in coppia, oppure se si hanno figli”, commenta Barbara Antonioli Mantegazzini, professoressa in Economia pubblica e in Politiche per la sostenibilità, e responsabile del Centro competenze lavoro, welfare e società della SUPSI (Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana). 

L’esperta fa anche notare come quella degli uomini sia la categoria che ha cambiato di più nel tempo, aumentando la propria quota tra i lavoratori a tempo parziale. “È pur vero – continua Antonioli Mantegazzini – che, tra le motivazioni annoverate dalla stessa categoria ci sia più spesso una crescita individuale e professionale, che la presa a carico della prole o dei familiari”. 

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I fattori ai quali si associa la minore diffusione del lavoro a tempo parziale tra gli uomini sono diversi. “Tra questi norme culturali che accostano il part-time prevalentemente alle donne, soprattutto per la cura dei figli, possibili svantaggi economici e la percezione di un rallentamento della carriera. Insieme, questi elementi contribuiscono a spiegare la maggiore resistenza maschile verso il lavoro ridotto”, spiega la professoressa.

“Questo perché, che si tratti di un’interruzione temporanea dal lavoro dovuta, ad esempio, alla genitorialità, oppure di una riduzione della percentuale di impiego, la lacuna che si viene a creare nel versamento dei contributi sociali e di vecchiaia può avere un impatto considerevole”. Ridurre i tempi di lavoro senza fare i conti con la previdenza vecchiaia – ed eventualmente correre ai ripari in tal senso, compensando con contributi volontari – può quindi in alcuni casi portare ad una maggiore vulnerabilità economica futura.  

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“Il sistema previdenziale e di welfare su cui si basa la nostra società è costruito attorno al tempo pieno. È pensato per una società in cui la nuova forza lavoro in entrata sul mercato compensa quasi esattamente quella che va in pensione. E quindi riflette solo parzialmente l’evoluzione e i cambiamenti in corso”, fa infine notare l’esperta. Una conferma di ciò è per esempio la regola per cui, al di sotto di un certo guadagno annuo, il pagamento del secondo pilastroCollegamento esterno diventa facoltativo, esponendo così i contribuenti al rischio di pensioni molto basse. 

Sempre più persone interessate 

Recentemente, del resto, il sindacato Travail.SuisseCollegamento esterno ha rivendicato un adeguamento della legislazione.

Dal momento che il lavoro a percentuale ridotta rappresenta una pratica frequentemente applicata dai lavoratori e dalle lavoratrici svizzeri, l’organizzazione chiede un aggiornamento delle norme volto, tra le altre cose, a migliorare il sistema pensionistico e la protezione di chi è impiegato a tempo parziale. 

Elementi a favore del lavoro parziale sono rappresentati, secondo Travail.Suisse, da un salario minimo che vada dai 4’500 franchi al mese per lavoratrici e lavoratori non qualificati e di 5’000 per le persone con alle spalle un apprendistato; da giorni di riposo fissi in modo da poter pianificare il lavoro a tempo parziale e la vita familiare; o ancora da maggiore tutela temporale per il tempo parziale. 

Con un miglioramento delle condizioni lavorative, sostiene l’organizzazione, le coppie con figli potrebbero lavorare di più a tempo parziale. Ciò contribuirebbe a combattere la carenza di manodopera qualificata, con conseguenti benefici per l’economia. 

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Svizzera seconda solo ai Paesi Bassi 

Nel confronto europeo, la Svizzera occupa una posizione di primo piano in termini di occupazione a tempo parziale. Con un tasso di lavoro a tempo parziale del 41,5%, è superata solo dai Paesi Bassi (con il 42,8% secondo la definizione internazionale, ossia un grado di occupazione inferiore al 100%). 

In Europa, le persone occupate che lavorano a tempo parziale sono in media il 18,7% del totale. Considerando solo i Paesi confinanti con la Svizzera, la diffusione del lavoro a tempo parziale è molto eterogenea: in Austria è al 31,3%; in Germania al 30,6%; in Francia al 17,5%; e in Italia al 17%.  

Le cifre più basse sono tutte state registrate nei Paesi dell’Est europeo: l’1,7% in Bulgaria; il 3,2% in Romania; il 3,8% in Croazia e il 4,6% in Slovacchia.

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