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Giovani e nubili, migranti italiane in Svizzera nel dopoguerra

b/n Tre giovani donne e un anziana posano con un pentolone accanto a un gruppo di operai fuori da una baracca
Tre giovani lavoratrici italiane assieme alla responsabile della cucina (loro connazionale, al centro) impiegate in una mensa di cantiere in Svizzera. Archivio privato Fam. Rogantini-Gini, Villa di Chiavenna

Non sempre la storiografia lo ricorda, ma le donne furono le prime protagoniste dell'immigrazione italiana in Svizzera nel secondo dopoguerra. Un saggio della storica Francesca Nussio ne propone un particolare spaccato, quello di tante giovani nubili lombarde che tra il 1945 e i primi anni Sessanta approdarono nelle valli orientali del Grigioni italiano per lavorare come domestiche, cameriere o aiutanti agricole. Molte non rimpatriarono più.

Il libro è frutto di un progetto di ricerca promosso dall’Istituto per la ricerca sulla cultura grigione. Nussio ha registrato i racconti di vita di 19 donne nate tra il 1925 e il 1946 -con le ragioni che le spinsero a partire, i percorsi seguiti, le difficoltà e le soddisfazioni incontrate- e ne ha tratto una pagina di storia per certi versi inedita. È la storia di un’emigrazione a corto raggio, anche se parte delle protagoniste lascerà in seguito la Valposchiavo e la Val Bregaglia per luoghi geograficamente e culturalmente più lontani dalle province lombarde d’origine. Ed è il racconto di vite lontane dai riflettori.

“La storia dell’immigrazione italiana in Svizzera non è solo quella di uomini e donne diretti verso le aree industriali e urbane della Svizzera tedesca e francese, più spesso presa in considerazione dalla ricerca storica”, osserva l’autrice, “ma anche quella numericamente meno importante, ma non per questo meno interessante, verso regioni più periferiche, regioni che a loro volta sono terre di emigrazione ma la cui economia necessita di manodopera non reperibile sul posto che viene reclutata oltre frontiera”.

Lo studio contribuisce quindi a colmare una lacuna e sviluppa un nuovo capitolo nella storiografia regionale dei Grigioni, che ha da tempo esplorato il mondo dell’emigrazione -in particolare di caffettieri e pasticceri- ma solo da alcuni anni studia il flusso migratorio inverso, cioè l’arrivo di forza lavoro dall’estero, “aspetto fondamentale della storia economica, sociale e culturale della regione”, sottolinea Nussio. In questo contesto, la storia delle donne migranti è stata ancora poco considerata.

Copertina di libro intitolato Donne d oltre frontiera Storie di migrazione tra Lombardia e Grigioni nel secondo dopoguerra
Viella editore

Per prime, da sole

Ma qual è il ruolo specifico delle donne nell’emigrazione italiana in Svizzera? “Non è per nulla marginale, soprattutto per il periodo su cui ho focalizzato la mia attenzione. Altre ricerche e studi hanno già evidenziato come le donne, in particolare provenienti dalle regioni rurali dell’Italia settentrionale, siano le prime protagoniste della migrazione italiana in Svizzera del secondo dopoguerra. Nel decennio 1945-55 le lavoratrici italiane in Svizzera erano più numerose rispetto ai loro connazionali di sesso maschile e anche in seguito, malgrado le proporzioni cambino con un netto aumento di immigrati uomini, la presenza femminile resta considerevole soprattutto in settori come la ristorazione, gli alberghi e il servizio domestico, come pure in vari rami industriali (ad esempio il tessile, l’orologiero, ecc.). Nella regione e nel periodo che riguardano il mio studio, anche in ambito agricolo erano assunte molte italiane”.

Numericamente superiori significa che tante emigravano sole, almeno nell’immediato dopoguerra. “Questa è senza dubbio una cosa da sottolineare. È soprattutto nell’ultimo decennio che la ricerca storica ha iniziato davvero a mettere in risalto il ruolo attivo delle donne nei flussi migratori tra Italia e Svizzera, a rompere con l’immagine di una donna ridotta al ruolo di Penelope che aspetta il ritorno a casa dell’emigrante o di un’accompagnatrice passiva. Moltissime donne emigravano sole, e anche quelle che accompagnavano o raggiungevano i loro mariti stagionali in Svizzera dovevano avere un lavoro e un permesso vincolato al contratto di lavoro, perché gli stagionali non avevano diritto al ricongiungimento familiare”.

Le 19 donne intervistate da Francesca Nussio provengono in maggior parte dalla provincia di Sondrio o province lombarde limitrofe e, in generale, da famiglie d’estrazione contadina di umili origini. Le loro testimonianze sono riportate in parte testualmente nella prima sezione del saggio. Nella seconda parte, Nussio propone un’analisi complessiva e comparativa per temi, condotta con attenzione per gli aspetti di genere, sociali, antropologici, culturali e linguistici.

Intraprendenti e coraggiose

L’autrice affronta un campo d’indagine che le è vicino: anche le sue due nonne erano ‘Donne d’oltre frontiera’. Del resto, come racconta una delle protagoniste del libro, riferendosi al comune di Brusio, “Quasi in ogni casa c’era una persona che poi restava qui. Era tutta una tiritera [una catena]. Si chiamavano l’un l’altra”. Chiunque abbia vissuto in Valposchiavo o Bregaglia nella seconda metà del XX secolo ha quasi certamente conosciuto donne di origine italiana, specialmente valchiavennasche o valtellinesi, giunte da emigranti e poi entrate a far parte della comunità locale attraverso il matrimonio. Altre invece rientrarono in Italia, o furono frontaliere.

Le testimonianze del saggio si inseriscono nel contesto più ampio della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera ma anche della storia delle donne. “Sulla condizione femminile si può notare un contrasto”, osserva l’autrice. “Da un lato la maggior parte delle donne intervistate erano in fin dei conti destinate a una vita da “serve” e infatti hanno spesso vissuto esperienze da “serve” sia in famiglia, sia nel lavoro, prima in Italia e poi in Svizzera a condizioni , sia in Svizzera con condizioni che oggi definiremmo di sfruttamento, ma che per loro, nel contesto dell’epoca, erano assolutamente normali. Al contempo, dalle interviste emergono anche figure di donne intraprendenti, coraggiose, in grado di fare delle scelte autonome, andando anche contro il parere della famiglia d’origine, donne che attraverso l’emigrazione accedevano a una maggior consapevolezza e indipendenza, e donne che tessevano attivamente reti migratorie femminili”.

Due donne e un uomo posano davanti a uno stabile sul quale si intravede la scritta nt Motric - Telephon
Le gemelle Gina Isepponi e Lia Pola, nate Cederna, in compagnia del marito della Isepponi, Dino, davanti al vecchio ristorante Motrice a Poschiavo. Gina e Lia, classe 1928, emigrarono per lavoro in Svizzera all’età di 17, rispettivamente 20 anni. Archivio privato Fam. Isepponi-Cederna, Poschiavo

Dal capitolo ‘Identità, appartenenze, integrazione’ affiora che le emigrate che hanno infine sposato uno svizzero -passo che all’epoca comportava la perdita della propria nazionalità e l’acquisizione del passaporto elvetico- sentono sì la Svizzera come loro Paese, ma perlopiù perché è il luogo dove hanno formato una famiglia e cresciuto i loro figli. Analogamente, il legame con la nativa Italia sembra scemare per molte quando vengono a mancare, ad esempio, i genitori.

Nel processo di integrazione, però, non prevalgono i rapporti familiari o d’amicizia bensì l’attività professionale. “Al di là di essere mogli e madri, molte di loro hanno continuato ad essere attive fuori casa anche dopo il matrimonio. Si nota in particolare come chi lavorava in un ristorante o in un negozio aveva anche un ruolo sociale pubblico all’interno della comunità d’approdo. Alcune testimoni, nel corso degli anni, sono diventate figure di riferimento o custodi di luoghi di riferimento nelle comunità in cui sono immigrate. Sì, la partecipazione alla vita della società locale avveniva in primo luogo attraverso il lavoro, ma non va dimenticato che erano spesso le reti personali e familiari a favorire l’accesso a un determinato posto di lavoro. Le due cose sono quindi legate fra loro”.

Il valore delle fonti

Ma da 19 storie personali si può davvero ottenere una sintesi? “Io ero partita con un’idea di ricerca più classica”, confida Francesca Nussio, “basata su fonti a stampa, archivi, letteratura. Ma mi sono presto resa conto che le informazioni che riuscivo a ottenere in questo modo erano molto frammentarie e parallelamente ho iniziato a fare alcune interviste per sondarne il potenziale. Infine, mi sono decisa per una ricerca basata fondamentalmente sulla storia orale”.

“Cercavo delle informazioni e ho trovato degli esseri umani, delle donne, tutte con storie diverse. Certo hanno un retroterra comune, e i loro percorsi presentano molti tratti in comune, ma a me è sembrato importante, nel libro, soprattutto restituire le singolarità e diversità. Propongo anche un’analisi e offro certo molti spunti di riflessione sui legami tra queste storie e i contesti in cui si inseriscono, ma non una vera e propria sintesi, perché ridurre in modelli, in conclusioni generalmente valide le informazioni provenienti da questo tipo di fonte è veramente molto difficile”.

“Va anche detto”, conclude Francesca Nussio, “che ho sentito la necessità di staccarmi da un testo rivolto a un pubblico principalmente accademico. Ho voluto scrivere un libro accessibile a un pubblico possibilmente vasto, quindi se vogliamo anche più divulgativo. Perché mi sarebbe sembrato assurdo utilizzare queste storie per un prodotto che fosse inaccessibile alle testimoni stesse o alle loro famiglie. È un libro che nasce dal dialogo con fonti vive e cerca di mantenere questo dialogo anche nella forma finale. È un libro scritto anche per loro”.

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