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Se Svizzera e Italia si contendono il personale sanitario

infermiera all opera
La differenza di stipendio tra i due lati del confine può essere anche del doppio. © Keystone / Christian Beutler

La carenza di professionisti e professioniste nel ramo medico e infermieristico è stata esacerbata dalla pandemia portando i Paesi quasi a litigarsi la mano d’opera. Un fenomeno che concerne tutti i confini elvetici, ma non è solo il salario ad attirare manodopera da oltre frontiera.

Medici generici o specialisti, infermiere e infermieri, assistenti di cura e via dicendo. La carenza di personale sanitario è un flagello che si abbatte da decenni sul sistema sanitario svizzero, così come su quelli di altri Paesi. Le misure intraprese negli anni per arginare questa penuria e per incentivare la formazione di nuove professioniste e nuovi professionisti del settore non sono state sufficienti e, con la complicità della pandemia e l’ulteriore pressione per lavoratrici e lavoratori, il problema si è addirittura acuito.

In cerca di personale straniero

La carenza è arrivata al punto che, soprattutto le regioni di frontiera, hanno iniziato – seppur indirettamente – a contendersi il personale formato.

Se prendiamo come esempio la sola provincia di Varese, il numero di infermiere e infermieri professionisti che in un solo anno, tra il 2021 e il 2022, sono passati a lavorare in Ticino è di circa 250. E ancora non basta. Solo lo scorso mese di novembre, l’ospedale di Aarau, nel Canton Argovia, a una trentina di chilometri dalla frontiera tedesca, ha lanciato un vero e proprio appello per attirare infermiere e infermieri, anche senza esperienza, provenienti dall’estero, pure dall’Italia.

Nemmeno dalla Germania ne arrivano più a sufficienza e si guarda quindi oltre, arrivando fino a Roma. Dalle colonne del Corriere del Ticino, il portavoce dell’Ospedale cantonale di Aarau (KSA) Boris Rauscher ha specificatoCollegamento esterno: “L’assunzione di specialisti stranieri è una fonte comune di reclutamento in molti ospedali, cantonali e non”. Pertanto, “il reclutamento in Italia è una delle oltre dieci misure utilizzate dal Gruppo KSA. L’Italia – ha ribadito ancora Rauscher – rappresenta una buona opzione perché il diploma di infermiera o infermiere è riconosciuto in Svizzera”.

La proposta francese

Una questione che tocca anche la Francia. In Alta Savoia, al confine con il Canton Ginevra, manca il 20-25% di personale infermieristico. Troppe e troppi coloro che vengono a lavorare in Svizzera dopo essere stati formati nelle scuole francesi. Da qui l’idea di chiedere il rimborso di parte del costo della propria istruzione a chi dovesse decidere di esercitare all’estero.

“La riflessione che stiamo portando avanti per fidelizzare il personale sanitario francese è totalmente compatibile con la libera circolazione, perché si tratta di una misura applicabile per un tempo limitato a cinque anni dopo il diploma, e per un lavoro in particolare”, ha spiegato Christian Dupessey, il presidente del Polo metropolitano del Ginevrino francese, ai microfoni microfoni della Radiotelevisione Svizzera di lingua francese RTS. Per ora si tratta solo di una proposta ma la discussione è aperta.

Le situazione in Ticino

Nel Canton Ticino, per esempio, il totale delle persone residenti che hanno un’occupazione è 164’400. Di queste, quasi il 16% lavora in ambito socio-sanitario, ossia 26’000. Ai summenzionati 26’000 vanno però aggiunti quasi 5’000 persone operative nello stesso campo che ogni giorno entrano in Ticino dall’Italia per lavorare nella sanità: nel complesso 1 su 6 (dati del 2021 dell’Ufficio cantonale di statisticaCollegamento esterno).

In base alle cifre fornite dall’Ente ospedaliero cantonaleCollegamento esterno (EOC), in Ticino, lo stipendio mensile di un medico va da un minimo di 6’500 franchi, che corrisponde alla paga iniziale di un medico assistente; a un massimo di 12’500 franchi mensili per un capo clinica.

Nell’ambito infermieristico, invece, si parte dai 3’600 franchi mensili per una o un assistente di cura alle prime armi; fino ad arrivare agli 8’000 franchi di stipendio massimo per un infermiere o un’infermiera specializzati, formatori o quadri (quiCollegamento esterno, da pag. 29, tutte le categorie).

Non solo una questione di soldi

I motivi che spingono professioniste e professionisti del settore ad attraversare il confine per lavorare sono molteplici. Tra i più evidenti ci sono condizioni salariali più alte, ma non è solo questo. Ad incidere su scelte come queste sono anche esperienze di vita, ambizioni di carriera, circostanze.

“Ho lavorato in Toscana per tre anni prima di trasferirmi in Ticino”, ci racconta Paolo, chirurgo specializzato di 35 anni, che da nove lavora in Svizzera. “La motivazione numero uno per me è stata la possibilità di perfezionarmi a livello professionale. In Italia, anche dopo aver terminato la formazione, è raro arrivare a fare operazioni che non siano di routine. Difficilmente si accede alle posizioni di chirurgo prima dei 45-50 anni e, prima che queste si liberino, ci si occupa solo dei casi più semplici o si assiste alle operazioni svolte dai chirurghi nominati”, chi spiega il medico.

“Questo ha i suoi pro e i suoi contro – continua ancora Paolo – perché per esempio, qui in Ticino, non ci sono posti fissi per i primi 10-15 anni. Che non vuol dire automaticamente rischiare di restare senza un impiego, ma che il concetto è diverso: in Italia, una volta che si è dentro, si ottiene più facilmente l’indeterminato ma tutto ciò rende il mercato del lavoro meno dinamico”.

Oltre alla carriera, anche il denaro

Il nostro interlocutore non nega poi che la questione salariale ha inciso ulteriormente sulla scelta di vita. E lo stesso vale per Daniela, da 12 anni assistente di cura in una casa di riposo del cantone.

Se Paolo ha preso armi e bagagli e si è trasferito in Svizzera, Daniela, che vive nella fascia di confine, ha invece continuato a fare la frontaliera. “Avevamo stipulato un mutuo per la casa e la differenza in busta paga era notevole”, racconta. “Certo, inizialmente è stato difficilissimo far combaciare lavoro e famiglia: mi alzavo alle 5 del mattino e tornavo a casa alle 9 di sera”.

Questo perché il traffico teneva Daniela sulle strade più di due ore al giorno e anche perché in Svizzera, contrariamente all’Italia, viene quasi sempre applicato l’orario spezzato, che allunga quindi ulteriormente il tempo trascorso fuori casa. “Adesso che sono passati molti anni non tornerei indietro”, continua Daniela. “Sì, in Italia sarei più vicina a casa ma qui nel frattempo ho ridotto la percentuale di lavoro e posso dedicarmi maggiormente ad andare in montagna e puntare di più sulla qualità di vita, mentre in Italia è raro trovare un posto a tempo parziale”.

“Le condizioni di lavoro sono inoltre molto diverse, nelle case di cura italiane le infermiere erano disponibili solo in certe fasce orarie, poi noi assistenti rimanevamo da sole con 8-9 ospiti ciascuna, mentre qui ne abbiamo 5-6 e possiamo offrire loro una qualità delle cure molto diversa”, asserisce la donna.

Attenzione sul personale scemata dopo il Covid

Oltre alle differenze elencate, un fattore che sembra però accomunare le condizioni di lavoro del personale socio-sanitario in Svizzera e in Italia è la carenza di manodopera. Del tema si è parlato molto durante il periodo più acuto di pandemia ma ora l’attenzione sembra essere scemata. “Anzi ora, anche senza Covid, c’è più da fare perché l’allerta è sempre alta”, conclude Daniela.

Le diversità constatate da Daniela, ci vengono confermate anche da Valentina, infermiera in una clinica riabilitativa. “La qualità del lavoro è molto diversa, le risorse pure, in Italia le carenze sono maggiori e le strutture più grandi. Il numero di pazienti per ogni infermiera e infermiere cambia il tipo di lavoro svolto in Italia e inoltre – proprio come aveva detto Daniela – l’opportunità di lavorare a percentuale ridotta è più scarsa”.

Anche per Valentina la questione economica ha avuto un importante peso nella decisione di cambiare lavoro ma non è stata l’unica a prevalere. “Prima lavoravo a Novara vivendo a Domodossola. Ora, lavorando nel Locarnese, faccio molti meno chilometri e ne guadagno in qualità di vita”.

In cerca di soluzioni

Certo, la questione salariale, come testimoniano i nostri interlocutori, è spesso accompagnata da fattori personali e della vita privata di ognuno. Il risultato di queste diverse circostanze è però una sempre maggiore difficoltà dei territori di confine ad arginare l’esodo di professioniste e professionisti che scelgono di esercitare in Svizzera.

Sgravi fiscali per chi rimane?

“È legittimo e, per certi versi, comprensibile, per un’infermiera o un infermiere italiani con una paga media che difficilmente potrà superare i 1’500 euro, decidere di migrare oltreconfine dove, come minimo, gli viene garantito uno stipendio doppio. Fondamentale per noi, in Italia, è convincerli della bontà di rimanere a casa. Per fare ciò si devono proporre delle migliorie sotto ogni punto di vista e si devono prevedere investimenti significativi e repentini per mettere in campo questa operazione di salvataggio”.

A pronunciare queste parole è stato Aurelio Filippini, presidente dell’Ordine delle professioni infermieristiche (OPI) di Varese, in occasione dell’assemblea organizzata in novembre insieme a UNEBA, l’organizzazione di categoria del settore sociosanitario, e volta a denunciare il fenomeno.

Nel corso dell’incontro sono stati richiesti interventi come sgravi fiscali e bonus aggiuntivi – sul modello della carta sconto benzina per i Comuni della fascia di confine – da corrispondere a quanti decidessero di rimanere a esercitare in Italia.

Proposte che, per ora, sembrano non ricevere adesioni in ambito politico.

Il Ticino non resta indifferente

Al contempo, la Divisione della salute pubblica del Cantone, interpellata dalla stampa, ha da parte sua asseritoCollegamento esterno che il programma di legislatura prevede “un piano ad ampio raggio per favorire la formazione di personale indigeno, con misure che vanno dagli assegni alla formazione, all’aumento delle indennità di stage, al sostegno delle riqualificazioni professionali e a provvedimenti nell’ambito della conciliabilità lavoro-famiglia”, il tutto allo scopo di dover ricorrere meno a personale formato altrove.

“A tutto questo si aggiungerà una campagna a tappeto nei vari ordini di scuola per invogliare a scegliere una professione in campo sanitario. La scelta politica del Canton Ticino è quindi orientata all’investimento pro-futuro, più che alla gestione di uno status quo”. Il tempo ci dirà se queste misure daranno frutti.


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