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Diamanti e contanti: a processo presunto riciclatore della Banca della Camorra

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Al centro del processo vi è una partita di diamanti acquistati in Israele. Keystone / Str

Un imprenditore diamantifero di Lugano è accusato dal Ministero pubblico della Confederazione (MPC) di aver riciclato il denaro della mala napoletana. Svoltosi in questi giorni, il processo è l’ultimo tassello di una lunga inchiesta internazionale che ha dimostrato come la piazza finanziaria svizzera sia vulnerabile alle attività di riciclaggio delle organizzazioni criminali. Nell’attesa del verdetto – che verrà comunicato il prossimo 28 di maggio – ecco quanto emerso finora.

È il 13 novembre del 2015 quando gli agenti della polizia federale scendono in centro a Lugano. L’obiettivo sono gli uffici di due società attive nel commercio di pietre preziose e gioielli. In contemporanea, a Milano, un’operazione coordinata dalla Divisione distrettuale antimafia (DDA) porta all’arresto di diverse persone. Tra di esse: Filippo Magnone, sospettato di riciclare milioni di euro per due importanti personaggi della camorra – Vincenzo Guida e Alberto Fiorentino – che gestivano una sorta di banca clandestina nel centro di Milano.

È proprio il profilo di Magnone che, qualche mese prima, ha portato gli inquirenti italiani ad avvisare i colleghi elvetici. L’uomo è infatti residente in Ticino e, per gli inquirenti italiani, è colui che si occupa del riciclaggio in Svizzera per conto dei membri di quella che è poi stata definita “la Banca della Camorra”. Nel luglio 2014, la Procura federale ha così aperto un’inchiesta nei confronti di Filippo Magnone, del fratello Matteo e del padre Paolo, già condannati a Milano per una gigantesca frode sull’Iva da quasi 30 milioni di euro. L’inchiesta svizzera verrà poi estesa a sei persone attive sulla piazza ticinese: tre operatori di cambio (condannati tra il 2017 e il 2018 per carente diligenza in operazioni finanziarie e diritto di comunicazione), una fiduciaria (assolta per prescrizioneCollegamento esterno dall’accusa di riciclaggio a seguito di un processo tenutosi nel 2018), un amministratore di una società (inchiesta abbandonata) e l’imprenditore diamantifero oggi in aula.

Altri sviluppi

Confiscati oltre dieci milioni di franchi

Nel giugno del 2020 Paolo e Filippo Magnone sono stati condannati in Svizzera a sei mesi di reclusione con la condizionale per riciclaggio. Un verdetto tutto sommato mite, ma che tiene in conto delle pesanti condanne inflitte loro in Italia. Inoltre, la condanna elvetica – pronunciata tramite un decreto d’accusa – ha permesso alla Confederazione di confiscare oltre dieci milioni di franchi tra conti bancari e denaro contante, orologi e diamanti ritrovati in alcune cassette di sicurezza in Ticino.

Questa condanna ha dimostrato come la Svizzera fosse diventata il luogo ideale per depositare e far transitare – anche con l’aiuto di alcuni intermediari finanziari locali – l’enorme mole di denaro liquido gestito dai fratelli Magnone. Denaro sporco che, in buona parte, era stato caricato in contanti su conti bancari e senza che ciò suscitasse sospetti nei vari istituti ticinesi utilizzati per queste operazioni illecite.

Società di copertura

In concomitanza con la condanna dei fratelli Magnone, il procuratore federale Sergio Mastroianni aveva emanato un terzo decreto d’accusa. Un imprenditore di Lugano, attivo nel settore dei diamanti e accusato di riciclaggio. L’uomo, però, ha fatto opposizione e l’incarto è giunto così sui tavoli del Tribunale penale federale (TPF) dove lo scorso 20 e 21 maggio si è tenuto un processo. Dibattimento che tvsvizzera.it ha potuto seguire e dal quale sono emersi altri dettagli sulla maniera con la quale la famiglia Magnone ha potuto infiltrare il tessuto economico svizzero.

Un esempio è il modo con il quale Filippo Magnone ha potuto ottenere il permesso di soggiorno. Un’autorizzazione rilasciata grazie al fatto che l’uomo risultava impiegato della Nassa Production & Trading SA, una società di Lugano attiva nel trading di materiale plastico. “Una società di copertura” per il procuratore Mastroianni secondo cui l’azienda era stata costituita ad hoc dai membri della famiglia Magnone che ne erano di fatto i proprietari senza però figurare da nessuna parte a registro di commercio. A riprova vi è il fatto che il capitale iniziale era stato costituito da denaro illecito dei Magnone e versato tramite due bonifici effettuati da una società di Chiasso nota all’MPC “come fornitrice di servizi di spallonaggio”. Lo scopo di questa società, per la procura federale era quella di “dimostrare fittiziamente un attività lavorativa dei membri della famiglia Magnone al fine di ottenere un permesso di soggiorno e spendere il capitale sociale”.

L’amico diamantaio

Una funzione in questa azienda paravento lo ha avuto anche l’imprenditore comparso in questi giorni al TPF di Bellinzona. Un ruolo non menzionato nel curriculum esposto di fronte alla giudice Fiorenza Bergomi. La storia dell’imputato parte da lontano, dalla Brianza e dall’esperienza nel mondo delle pietre preziose acquisite nei negozi del padre. Poi, l’incontro con i Magnone e un legame che si consolida quando sua sorella diventa la compagna di Filippo (una relazione nel frattempo interrotta). Infine, il desiderio di trasferirsi in Svizzera e di aprire un’attività a Lugano.

Un approdo fortunato: soldi che girano e bella vita tra diamanti e auto di lusso. Tutto interrotto quel giorno di novembre del 2015, con l’arresto di Filippo Magnone in Italia e la perquisizione delle due società di Lugano. Un’operazione che, per gli inquirenti federali, ha “stroncato sul nascere” l’imponente attività di riciclaggio che ruotava attorno proprio alle due aziende ticinesi. Per l’accusa queste ultime sono state create per volontà dei Magnone: Filippo era assunto da una di esse e sarebbe stato il proprietario occulto dell’altra, la cui capitalizzazione è originata da due versamenti provenienti da una persona che, in Italia, era considerata come l’investitore dei guadagni illeciti del gruppo che ruotava attorno alla Banca della Camorra.

La borsa dei diamanti

Al centro del processo vi è una partita di diamanti, settore considerato di suo ad alto rischio riciclaggio. In questo caso le pietre preziose che sono state acquisite alla borsa dei diamanti di Ramat-Gan, nei sobborghi di Tel Aviv, noto centro mondiale del commercio di gemme. L’imputato era accreditato alla borsa e, a due riprese, vi si era recato con Filippo Magnone. Per il procuratore Mastroianni, l’uomo avrebbe organizzato l’acquisto alla società israeliana Res Diamond per oltre 750.000 dollari di diamanti per conto dei Magnone. Il denaro proveniva da un bonifico da un conto BSI di Matteo Magnone aperto alle Bahamas. Soldi sporchi? Sì per la pubblica accusa secondo cui il montante, accreditato in contanti, era una parte dei 28 milioni di euro guadagnati dai Magnone nell’immensa frode carosello commessa in Italia.

Per Mastroianni, il ruolo dell’imputato è stato decisivo: è lui che, legato ai Magnone “da un’amicizia consolidata”, avrebbe organizzato tutta l’operazione grazie alle sue entrature e alle sue conoscenze professionali. Di tutt’altro avviso il parere di Luca Marcellini, l’avvocato dell’imprenditore. “L’ipotesi di reato sfugge alla giurisdizione svizzera” ha dichiarato, sottolineando come le operazioni siano state effettuate tra Nassau e Israele da cittadini italiani. Per l’avvocato, inoltre, non è provato che i soldi abbiano un’origine illecita: se ciò fosse, potrebbe anche trattarsi di denaro provento di reati realizzati negli anni ’90 e per cui il riciclaggio sarebbe prescritto. Il suo cliente, per di più, non aveva nessun motivo di dubitare che i soldi offshore dei Magnone – depositati in banche svizzere obbligate a dei controlli – fossero provento di un crimine.

Selfie di cattivo gusto

In aula sono state proiettate alcune foto: tre selfie in cui l’imputato e Filippo Magnone sorridono di fronte a delle mazzette di soldi. Un semplice “inno al cattivo gusto” per l’avvocato Marcellini; una prova di come il duo fosse in simbiosi e navigasse senza pudore in un mare di contanti sporchi. Tant’è che due cassette di sicurezza controllate da Magnone ritrovate (senza chiavi) all’interno dei locali delle due società luganesi, una volta forzate, hanno “liberato” 639’000 franchi in contanti. Soldi che, per la procura, provenivano da una somma di 4,25 milioni di franchi ricevuti dalla famiglia Magnone e provento delle attività criminali di Vincenzo Guida e Alberto Fiorentino. Reati gravi: si parla di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di rapine e furti, concorso in traffico di stupefacenti, associazione di stampo mafioso, estorsione e usura. Il core business della camorra, insomma! Anche in questo caso, per la difesa, impossibile fare un legame tra questo denaro e l’origine illecita data per scontata dall’accusa.

All’imputato viene anche contestato il reato di carente diligenza in operazioni finanziarie e diritto di comunicazione: avrebbe infatti accettato 380’000 euro da una società in cambio di 10 chili di oro, senza accertarsi dell’identità dell’avente diritto economico di questa azienda. L’uomo d’affari – che nel frattempo ha ripreso l’attività – è infine accusato di aver aiutato a trasferire valori patrimoniali di cittadini italiani da conti svizzeri verso conti ungheresi senza disporre della necessaria autorizzazione. “Un palese abuso della piazza finanziaria svizzera” per il procuratore Mastroianni che ha chiesto una condanna di nove mesi sospesi condizionalmente e una multa di 3’000 franchi. La difesa, da parte sua, ha chiesto l’assoluzione.

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