Losanna celebra il secolo degli italiani
Una mostra al Museo storico di Losanna ripercorre 150 anni di immigrazione italiana nella regione e nel capoluogo vodese.
Cosa sarebbe oggi Losanna (ma il discorso si potrebbe estendere alla Svizzera intera) senza l’immigrazione italiana? Diversa, senza dubbio. Non solo perché l’arrivo di decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici dalla Penisola ha modellato il tessuto urbano della città. Un tessuto, del resto, spesso costruito proprio dagli italiani. Ma anche (e soprattutto) perché il concetto stesso di italianità ha impregnato profondamente tutti gli aspetti della società – dalla gastronomia alla cultura, dallo sport alla lingua – modificandola per sempre.
Come quasi sempre accade quando si parla di immigrazione, gli inizi sono stati difficili. Ci sono voluti decenni prima che “le braccia” evocate da Max Frisch nella celebre frase che fa da ‘fil rouge’ all’esposizioneCollegamento esterno, fossero considerate “esseri umani”, parte integrante a pieno titolo della società svizzera.
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Come l’italianità ha plasmato la Svizzera
Quando gli italiani vivevano nei “villages nègres”
Nell’ultimo scorcio del XIX secolo, quando la Svizzera entra in pieno nella modernità, con la costruzione di grandi infrastrutture, in particolare ferroviarie, la manodopera italiana (in questi anni proveniente essenzialmente da Piemonte e Lombardia) gode di scarsa considerazione, per usare un eufemismo. Una delle immagini che apre la mostra presenta quello che era stato soprannominato il “village nègre” di Vallorbe, dove vivevano i circa 1’000 operai italiani assunti per scavare la galleria del Mont d’Or e costruire la stazione. Un epiteto che non lascia dubbi sul modo in cui la popolazione locale percepiva questi immigrati. “Non era per nulla eccezionale – ci spiega Sylvie Costa Paillet, conservatrice del museo. Ogni località in cui vi era una forte concentrazione di manodopera italiana aveva il suo ‘villaggio negro’. Al cantiere della galleria dell’Albula, ad esempio, vi era l'”Indianerdorf”, il ‘villaggio degli indiani'”.
“Queste genti del sud, tra cui si infilavano elementi di dubbia fama, erano spesso e volentieri chiassose, litigiose. Ad alcuni piacevano le risse. Il loro gioco favorito era quello del coltello”, scrive nelle sue memorie Marius Augsburger, agente della polizia di Losanna a cavallo dei due secoli.
Questa accoglienza perlomeno tiepida non scoraggia gli italiani dall’organizzarsi. Nascono associazioni, ad esempio società di mutuo soccorso, luoghi di raduno, piccoli negozi di alimentari dove trovare prodotti ancora sconosciuti nella Confederazione…
Da un re dell’edilizia al Duce
Molti immigrati restano in Svizzera il tempo di un cantiere, altri rimangono e malgrado mille difficoltà fondano delle famiglie. Altri ancora fanno fortuna, fino a diventare importanti imprenditori. Ad esempio, Emanuele Bellorini, nato nel 1863 a Mombello, in provincia di Monza, arrivato in Svizzera come muratore e diventato sul finire del XIX secolo un re dell’edilizia, con al suo attivo enormi cantieri non solo a Losanna ma in tutta la regione.
Tra di loro vi è anche un certo Benito Mussolini, giunto in Svizzera nel 1902 e che vivacchia di lavoretti saltuari tra Losanna e Ginevra fino al novembre 1904, dopo aver rischiato di essere espulso più volte. Durante questo soggiorno ha occasione di seguire qualche corso di Vilfredo Pareto e Pasquale Boninsegni all’Università di Losanna, ciò che basterà all’ateneo vodese per conferire al Duce nel 1937 il titolo di dottore honoris causa in scienze sociali e politiche, malgrado una certa indignazione tra l’opinione pubblica.
Ma il fascismo, ricorda Sylvie Costa Paillet, ha un impatto ben più ampio tra la comunità italiana in Svizzera. In particolare, attraverso le Case d’Italia, che negli anni ’30 si costituiscono in rete. Questi luoghi riuniscono sotto lo stesso tetto diverse attività: da un lato offrono agli emigrati un luogo dove incontrarsi e dove far capo alle attività consolari, dall’altro fanno opera di propaganda per il regime, tramite soprattutto l’Istituto italiano di cultura.
Il ruolo delle donne
Dopo una relativa accalmia nel periodo tra le due guerre, l’immigrazione italiana riprende più forte che mai negli anni ’50, favorita dal boom economico in Svizzera, dall’accordo italo-elvetico del 1948 e non da ultimo da una vera e proprio strategia migratoria da parte del Governo italiano, “che permette di esportare la disoccupazione, di far rientrare denaro nel Paese e di prevenire le tensioni sociali, potenzialmente favorevoli al Partito comunista”, ricorda l’esposizione.
Se la prima ondata migratoria riguarda principalmente – ma non solo – gli uomini, nel Dopoguerra sono sempre più spesso anche le donne a tentare miglior sorte all’estero. A Losanna, ad esempio, la fabbrica di calze di nylon e vestiti Iril funziona e ha successo soprattutto grazie alle operaie italiane.
“Il nostro è anche un omaggio a tutte queste donne, che oltre a fornire un contributo economico molto importante, hanno mostrato alla Svizzera che poteva esistere un altro modello organizzativo, che il lavoro delle donne era possibile”, sottolinea Sylvie Costa Paillet, ricordando che all’epoca le donne svizzere erano soprattutto confinante nei lavori di casa.
La svolta degli anni Ottanta
L’aria che si respira nei Trenta Gloriosi non è comunque poi così diversa da quella di qualche decennio addietro. Le baracche in cui spesso sono alloggiati gli stagionali italiani non sono più soprannominate “villages nègres”, ma le condizioni restano precarie e la xenofobia all’ordine del giorno. Tristemente celebri in questo senso le iniziative Schwarzenbach.
Per un’inversione di tendenza, bisogna aspettare gli anni Ottanta. Tutto ciò che richiama all’italianità – e non manca naturalmente una buona dose di stereotipi – diventa improvvisamente di moda. Tutte quelle ‘novità’ che gli italiani avevano portato con sé e che lentamente nel corso degli anni si erano sparse un po’ come dei semi nella società elvetica – dall’alimentazione alla musica, dal cinema alla lingua, passando per lo sport o più in generale i prodotti italiani – germogliano rigogliosamente.
Le ragioni sono molteplici. “Dopo lo choc petrolifero del 1973, molti italiani rientrano in patria e la tensione sociale diminuisce, spiega Sylvie Costa Paillet. Inoltre, molti svizzeri iniziano a trascorrere le vacanze in Italia, infatuandosi di quell’idea che è la dolce vita”. Non da ultimo, negli anni Ottanta l’economia italiana va molto meglio. Gli Anni di piombo sono finiti e il “made in Italy” assurge a status symbol nel mondo intero.
L’Italia che vince
È l’Italia che vince e che nello stesso tempo fa prendere una rivincita a tutti quei suoi emigrati considerati troppo spesso cittadini di seconda classe nei loro Paesi di residenza. È l’Italia che potremmo racchiudere in un solo ed unico simbolo: quella gioia sfrenata e quell’urlo liberatorio di Marco Tardelli dopo il gol che praticamente consegna i Mondiali di calcio del 1982 agli azzurri. Un’esultanza che un altro artefice di quella vittoriosa cavalcata spagnola, Bruno Conti, ha poi riassunto così: “Con quell’espressione Marco è un po’ come se avesse voluto dire ‘siamo forti anche noi'”.
Ed è forse questa fierezza per il lungo percorso compiuto, malgrado le mille difficoltà, le battute d’arresto e i fallimenti, uno degli aspetti che più traspare dall’esposizione losannese. Attraverso le testimonianze di venti immigrati e immigrate italiani o dei loro figli, il Museo storico dà un volto a tutto questo cammino intrapreso, a questa avventura umana che è l’emigrazione, fatta di tante storie diverse. E di mille e mille altre storie ancora da raccontare.
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