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Gli incentivi fiscali da soli non bastano per far rientrare i ‘cervelli’

Enrico Pugliese

Il Governo italiano ha recentemente rilanciato la misura per cercare di convincere i cosiddetti 'cervelli in fuga' a rientrare in patria. Ma queste agevolazioni fiscali rischiano di persuadere solo coloro che sarebbero comunque ritornati.

Nella legge di bilancio 2021, con effetti che si vedranno negli anni a venire, è stata rilanciata e ampliata la misura contenuta nel decreto crescita 2019 (e ancor prima nel 2015) che prevedeva un regime fiscale di favore per i “cervelli” all’estero.

Nel decennio che abbiamo alle spalle lo spazio concesso nel dibattito pubblico al tema dei flussi di italiani in movimento in Europa e nel mondo è stato quasi del tutto egemonizzato dal fenomeno descritto come “fuga dei cervelli”. Per cervelli la pubblicistica intende persone molto ben formate che si recano all’estero per ricoprire ruoli di prestigio presso università, centri di ricerca pubblici o privati, e istituzioni.

Esodo di massa

Come conseguenza di questo approccio, poco corretto (ogni lavoratore è dotato di cervello e intelligenza a prescindere da formazione e posto ricoperto) e poco attento all’esame dei numeri che già da almeno quindici anni raccontano di un esodo di massa da ogni parte d’Italia (un ritmo di circa 120’000 partenze all’anno, superiore per intenderci agli arrivi di immigrati sulle coste italiane), si è affermata sulla vicenda migratoria italiana degli ultimi decenni una lente distorsiva che ha di fatto cancellato dalla narrazione i tanti lavoratori e le tante lavoratrici, le persone disoccupate o in cerca di migliori condizioni di vita che se ne andavano dal proprio Paese.

Questo racconto ha d’altra parte lasciato credere che fossero degni di nota solo coloro che potrebbero essere definiti “talenti”, alimentando un rimpianto a posteriori per lo “spreco” dopo averli formati e per non essere riusciti a “trattenerli”. Da questo modo di pensare si impone già nel 2015 un regime fiscale di favore per il rientro dei “cervelli”. In un primo momento limitato ai ricercatori e ai docenti, poi esteso ad altre categorie è oggi disponibile anche per un certo numero di lavoratori autonomi laureati o con specializzazione che intende far ritorno in Italia.

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Questo contenuto è stato pubblicato al Associazione dei ricercatori italiani in Svizzera, un’associazione di cervelli in fuga? Non secondo la sua presidente.

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È forse lecito domandarsi se da questo modello, che chi scrive ritiene non del tutto condivisibile, possano emergere dei risultati positivi. In effetti i docenti universitari e i ricercatori che dopo almeno due anni di lavoro all’estero stanno ora godendo di questi benefici (si parla di una riduzione del 90% delle imposte sul reddito da lavoro per 5-6 anni, estendibili fino ad un massimo di 10), pur non essendo molto numerosi, saranno certamente ben contenti di percepire finalmente un salario più in linea con le medie europee. Ma siamo sicuri che il rimpatrio di queste persone sia motivato dalla riduzione delle imposte? Che il trattamento di vantaggio non sia che un beneficio legittimo che subentri successivamente ad una decisione che sarebbe stata comunque assunta?

A rientrare sono soprattutto i più precari

La grande crisi legata al Covid ha in realtà mostrato come i flussi di rientro abbiamo coinvolto soprattutto persone poco protette sia in Italia che all’estero, i meno qualificati, i più precari, che sono in genere anche i più propensi a far rientro dopo un periodo di duro lavoro all’estero. Questa popolazione fragile è stata indotta al rimpatrio dalla scarsa protezione e armonizzazione dei differenti welfare nazionali per i cittadini in movimento nel continente europeo. E forse proprio a queste persone andrebbe data una risposta prioritaria.

Se però guardiamo alla fascia dei più qualificati, i quali spesso non ricoprono all’estero posizioni di vertice ma finiscono per svolgere attività non in linea con le proprie competenze, il tema che si pone è la prospettiva con la quale siamo ancora soliti pensare la mobilità europea.

Non c’è dubbio che per una fascia crescente di persone, con dottorati di ricerca o senza, la questione centrale è la dignità e la prospettiva di un quadro di vita qualitativamente migliore da quello che decidono di lasciare. Necessità e bisogno ma non solo. Ciò significa condizioni di lavoro (perché un neolaureato italiano è disposto a fare un lavoro non in linea con le proprie competenze altrove e non Italia?), welfare, accesso a opportunità culturali e economiche, scuola e migliori possibilità di crescita da offrire ai propri figli.

“Una volta affrontate queste difficoltà, una volta conquistate posizioni di maggiore serenità all’estero, la prospettiva del rientro si fa lontana, molto difficile da percorrere.”

Sull’altro lato della bilancia vanno ovviamente poste le tante difficoltà che allontanarsi dal proprio luogo di nascita comporta. La perdita di una rete di sicurezza legata ai rapporti amicali e parentali che va del tutto ricostruita, periodi di solitudine e di incertezze, l’impegno per adattarsi o per far proprie lingua e cultura di luoghi non conosciuti nelle loro importanti sfumature. Si tratta di questioni che permangono nonostante la prevalente narrazione sulla mobilità internazionale, e sulla generazione Erasmus, abbia indotto a ritenere che fossero proprie di un’altra epoca. Per dirla con franchezza: un conto è trascorrere anno di studio a Parigi, per i pochi che possono permetterselo, un altro è trasferirsi per lavoro in uno o più paesi europei.

Una volta affrontate queste difficoltà, una volta conquistate posizioni di maggiore serenità all’estero, la prospettiva del rientro si fa lontana, molto difficile da percorrere.

Delle agevolazioni che parlano a pochi

Gli anni passati “fuori” creano talvolta una terra di nessuno nella quale si vive una sorta di sospensione tra il mondo di prima, che resta fissato al momento della partenza, e quello dell’arrivo in una società alla quale ci si deve abituare. Il rapporto con il Paese di partenza, spesso alimentato da un costante contatto favorito dalle nuove tecnologie, si fa ambivalente, da una parte affetto e compartecipazione dall’altra volontà di “tagliare” i ponti. In fin dei conti per molti “cervelli”, restringendo per esempio il campo ai ricercatori e ai docenti, l’università italiana resta quel luogo dal quale si sono congedati, sottoposti a sfruttamento, a forme di nepotismo, a criteri in chiaro scuro negli avanzamenti di carriera.

Ma tornando più specificatamente al decreto, e alle misure sostenute dagli ultimi governi, è chiaro che la tendenza è a stabilire meccanismi economici premiali per coloro che per così dire tornano da vincenti della globalizzazione, senza tenere in giusto conto un elemento che ne inficia i benefici e ne restringe impatto e platea.

I docenti, i ricercatori, e le categorie assimilabili, che fanno marcia indietro sono spesso coloro che non hanno mai interrotto il legame con il luogo di lavoro e il paese di partenza. Si tratta sovente di chi si è assentato momentaneamente in attesa che si aprissero delle posizioni. Insomma, questo tipo di misure rischiano di agevolare in modo sistematico e strutturale coloro che in un modo o nell’altro avrebbero comunque fatto ritorno. Non parlano, se non accidentalmente, ai tanti, siano essi accademici con in tasca un dottorato di ricerca, lavoratori della conoscenza, neolaureati in cerca di una propria strada nel mondo che hanno lasciato il Paese perché insoddisfatti, non riconosciuti, invisibili, precari, sfruttati, poveri oppure semplicemente perché curiosi di andare alla scoperta di ciò che di nuovo e inaspettato ci può essere oltre le Alpi.

Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente quelle dell’autrice/autore, e non riflettono necessariamente le opinioni di tvsvizzera.it.

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