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“La mafia me la sono trovata davanti”

prima pagina di una rivista
Fondato nel 2003 da Marilù Mastrogiovanni, il mensile Il Tacco d'Italia si è trasferito dieci anni fa sul web. tvsvizzera

Negli ultimi mesi, la criminalità organizzata pugliese è tornata sotto la luce dei riflettori. Da anni la giornalista Marilù Mastrogiovanni, direttrice de Il Tacco d'Italia, è in prima linea per contrastarla.

“Io la mafia non la sono andata a cercare. Volevo fare giornalismo d’inchiesta dal mio territorio, quindi la mafia me la sono trovata davanti”. La spiegazione che Marilù Mastrogiovanni dà del suo lavoro è semplice e disarmante.

Classe 1969, Marilù Mastrogiovanni inizia a fare la giornalista a Lecce quando aveva vent’anni. Dal 2007 è sotto “vigilanza dinamica” da parte delle forze dell’ordine a causa delle numerose intimidazioni ricevute per il suo lavoro. “Dopo una serie di minacce, anche di morte, e attacchi alla redazione de Il tacco d’ItaliaCollegamento esterno (il giornale che ha fondato nel 2003, ndr) ho deciso con la mia famiglia di spostarmi a Bari. La mafia barese e la mafia salentina non comunicano. Quindi quelli che mi minacciano, nonostante siano solo 250 chilometri di distanza, qui non arrivano”.

Ogni volta che Marilù Mastrogiovanni torna a Lecce deve essere accompagnata da una scorta. Una scelta – il giornalismo investigativo – di cui, però, non si pente. “Quando fai giornalismo d’inchiesta, se non sei ingenua, sai a cosa vai incontro e quali sono le precauzioni che devi prendere. Quindi è sempre stato un rischio calcolato”.

Eppure di minacce la giornalista ne ha subite tante. Quando nel 2003 fonda il Tacco d’Italia non immagina che in breve tempo sarebbe diventato il giornale più attenzionato della provincia a causa delle decine di inchieste giornalistiche pubblicate. Attenzionato dai cittadini comuni, interessati a leggere le sue storie, ma anche dalla mafia, interessata a che quelle storie non venissero più pubblicate.

Telefonate intimidatorie, furti e omicidio di mafia

Il primo duro colpo per Marilù Mastrogiovanni e la sua squadra arrivò nel 2008 quando Peppino Basile, politico di Ugento, in provincia di Lecce, che con la direttrice de Il Tacco aveva collaborato diverse volte, fu ammazzato. I mandanti e gli esecutori sono ancora ignoti, ma ci sono pochi dubbi sul fatto che si tratti di un omicidio di mafia.

Prima di allora c’erano stata telefonate intimidatorie in redazione, furti mirati e immondizia scaricata davanti l’ingresso della sede del Tacco. Ma l’uccisione di Peppino Basile – una delle fonti più importanti delle inchieste del giornale – rappresenta uno spartiacque.

Da lì in poi il lavoro di Marilù Mastrogiovanni si fece sempre più difficile. La gente aveva paura, gli inserzionisti iniziarono a ritirarsi tanto da rendere impossibile la continuazione delle pubblicazioni. Fu qui che il Tacco d’Italia diventò un giornale online.

Il lavoro, questa volta sul web, di Marilù Mastrogiovanni e della sua redazione continuò ad infastidire, così arrivarono nuove intimidazioni che a un certo punto si fecero più dirette. Prima entrando in casa e massacrando di botte il cane di famiglia, poi innescando un incendio nel suo giardino. A questo punto, dunque, arrivò la decisione di abbandonare Lecce e trasferirsi a Bari.

“Le mafie pugliesi sono spesso sottovalutate rispetto alle altre. Sono mafie molto sotterranee che cercano la collaborazione dei cittadini, degli imprenditori e delle istituzioni”.

Una mafia sottovalutata

Oggi Marilù Mastrogiovanni insegna giornalismo investigativo presso la scuola di giornalismo di Bari e continua, seppur da lontano, a dirigere il Tacco d’Italia che non smette di occuparsi della Sacra Corona Unita. “Le mafie pugliesi sono spesso sottovalutate rispetto alle altre – spiega la giornalista a tvsvizzera.it – ma non sono meno pericolose. Si tratta di mafie, soprattutto la mafia salentina, molto sotterranee che cercano la collaborazione dei cittadini, degli imprenditori e delle istituzioni. Spesso sono gli stessi imprenditori salentini a cercare le mafie. Questo fa capire che c’è un consenso sociale elevatissimo che rende difficili le indagini da parte degli inquirenti. Il motivo? Qui, in certi strati della popolazione, è sentita più amica la mafia che lo Stato”.

Oggi la vita professionale di Marilù Mastrogiovanni è più serena di quanto non lo fosse fino a qualche anno fa quando ancora viveva e lavorava a Lecce. “Io in realtà sono un diesel nell’elaborare quanto mi è accaduto – confida la giornalista – e infatti credo che a livello emotivo e psicologico tutto ciò che è accaduto negli scorsi anni lo sto pagando adesso”.

Quando lo Stato è assente

Marilù Mastrogiovanni non nasconde che spesso si è sentita abbandonata da chi – lo Stato – avrebbe dovuto invece proteggerla. “A volte sono stata trattata come una criminale, come quando decisero di sequestrare il mio giornale per un’inchiesta scottante che pubblicai”.

Un sequestro preventivo – che la Federazione Nazionale Stampa Italiana definì “grave e inquietante – relativo a un’inchiesta in cui venivano dimostrati i rapporti tra un boss della Sacra Corona Unita, un consigliere comunale di Casarano e l’impiegato di un’azienda.

“La lotta alla mafia è dolorosa – spiega Mastrogiovanni –. Viene sempre raccontata solo la lotta del vincitore, di chi alla fine ce la fa, del giornalista che viene messo sotto scorta e del magistrato che fa tanti arresti. Ma spesso le cose non vanno così. Spesso lo Stato ti ostacola. Spesso ci si sente soli”.

“Non sono un’eroina”

Marilù Mastrogiovanni spiega di non essere e non voler essere una martire. “Io voglio solo restituire le notizie ai legittimi proprietari che sono i cittadini. Ma non sono disposta a farlo a tutti i costi. Una cosa a cui non rinuncerei mai è la mia libertà. Motivo per cui ho deciso di trasferirmi a Bari. Se fossi rimasta a Lecce la situazione sarebbe precipitata e alla fine mi sarebbe stata assegnata una scorta. E questo non lo volevo”.

Rigetta anche l’etichetta di giornalista antimafia. “Tutti i giornalisti sono, o quantomeno dovrebbero essere, giornalisti antimafia. Io sono solo una persona che vuole fare il suo lavoro. Non sono e non voglio essere raccontata come un’eroina o una persona che sta combattendo una guerra contro le mafie. Io sono una giornalista investigativa che per fare bene il suo lavoro si trova ad affrontare delle conseguenze. Che però non è giusto che io debba affrontare”.

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