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Viaggio nei problemi italo-svizzeri, ma l’accordo finale sembra vicino

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di Aldo Sofia

Se si guarda a cifre globali e circostanze, tutto sembra andare a meraviglia tra Svizzera e Italia. Per la Confederazione la vicina Repubblica rimane il secondo partner commerciale in assoluto; gli investimenti elvetici nella Repubblica danno lavoro a circa 80.000 persone; e l’intesa fra i due paesi sulla voluntary disclosure – l’autodenuncia di chi vuole regolarizzare i capitali nascosti all’estero, in grandissima parte nelle banche rossocrociate – potrebbe far confluire nelle anemiche casse della Repubblica benefici fiscali per quasi 4 miliardi di euro.

Allora, cosa impedisce di formalizzare (firma e passaggio in parlamento) la road map sottoscritta all’inizio dell’anno in ambito finanziario e fiscale, che consentirebbe di cancellare anche la black list che ancora inibisce parte delle attività del settore bancario elvetico oltre confine? Berna e Roma hanno fretta di firmare. Ma c’è un…ma. Si chiama Ticino. E, secondo le regole federali, i cantoni hanno un’autonomia, un ruolo e interessi anche in politica estera che Berna non può del tutto ignorare. Fino a quando? Dove sta il limite che può spingere il governo svizzero a “forzare” la situazione? E in quale modo?

Da questa constatazione è partita la serata speciale che il settimanale d’inchiesta “Falò” ha dedicato alcuni dei principali ostacoli che continuano a bloccare l’ultimissima fase di un processo negoziale lungo e difficile: la questione del casellario giudiziale imposto da Bellinzona ai lavoratori stranieri, il metodo di tassazione e dunque dei ristorni relativo ai frontalieri, e la questione del pieno rispetto dei bilaterali in fatto di reciprocità.

Il primo di questi problemi ha fatto segnare il punto più basso, e polemico, di questo 2015: con l’ambasciatore svizzero a Roma, Giancarlo Kessler, convocato al ministero degli esteri, con la protesta dell’Unione Europea, e in definitiva con Berna e Roma uniti dal malumore provocata dalla mossa ticinese. Negli ultimi giorni il problema è stato alleggerito dalla cancellazione della dichiarazione dei “casi pendenti”, di cui l’inchiesta di Falò ha peraltro dimostrato l’impossibilità di una reale, concreta applicazione. Comunque, alleggerimento definito insufficienti dal governo italiano, che chiede il pigro e semplice ritiro del provvedimento sul casellario.

Per il secondo tema, il nuovo metodo di tassazione dei frontalieri, l’inchiesta rivela che se venisse definitivamente applicato l’accordo fin qui abbozzato (70 per cento delle imposte pagate in Ticino, e il 30 in Italia) la pressione fiscale per larghe fasce di lavoratori italiani che ogni giorno attraversano le frontiere del Ticino diventerebbe particolarmente severa. Una misura studiata per rendere meno attrattivo il mercato ticinese per i disoccupati della fascia di frontiera, il cui numero è triplicato nell’ultimo decennio, e che oggi occupano circa il 30 per cento del “terziario”, una volta mercato del lavoro pressoché esclusivo per i residenti. Funzionerà questo tipo di disincentivo? La disoccupazione in Lombardia e Piemonte non continuerà comunque premere sul Ticino? O, sull’altro fronte, certe industrie ticinesi non rischieranno di perdere una parte di manodopera o di dover aumentare i loro bassi salari?

Complesso anche il terzo capitolo “indagato” da Falò, quello della reciprocità. Da anni in Ticino si ripete che nella sostanza per le ditte ticinesi “fare impresa” in Italia, ed in particolare in Lombardia (che, nonostante la crisi, nel 2014 è stata definitiva l’area più attrattiva d’Europa dal “Financial Times”). L’indagine dimostra che facile non è, ma che non esiste, come molti tendono a credere, una discriminazione sistematica e una violazione degli accordi da parte italiana. La burocrazia scoraggia, così come certe realtà italiane (corruzione e giustizia lenta). Ma si può anche scoprire che allo “Swiss Business Hub”, che presso il Consolato di Svizzera a Milano fornisce consultazione gratuita per affrontare e superare gli ostacoli, si rivolgono con buon esito numerose ditte elvetiche d’oltre Gottardo (da 30 e 40 all’anno) , ma nessuna società ticinese ne ha chiesto l’assistenza. Scarsa informazione, debole iniziativa imprenditoriale, sfavorevole cambio franco/euro, o anche un clima politico e pregiudizi che frenano l’imprenditoria ticinese?

Infine, nel complesso quadro italo-svizzero si può inserire anche il capitolo delle infrastrutture ferroviarie. Si deve già guardare agli effetti della prossima apertura di Alptransit, con un notevole aumento anche del traffico merci verso sud. Nonostante gli accordi con Berna (che ha messo sul tavolo dell’Italia 280 milioni per l’ammodernamento delle linee di Luino e Domodossola) l’Italia sembra ancora esitante, per alcuni aspetti bloccata. Non a caso la Svizzera è anche costretta a risolvere il problema dei terminali per il trasbordo delle merci (dal treno ai camion) e ne co-finanzierà altri tre in Lombardia – Milano smistamento, Brescia e Piacenza – per evitare di costruirne in Ticino. E sono da 80 a 140 milioni di franchi supplementari. Ma basteranno?

Insomma, problemi veri. Ma c’è quella realtà ricordata all’inizio. Svizzera e Italia sono due partner vincolati da reciproci forti interessi, non solo economici. Ecco perché, da quanto abbiamo appreso, Ticino o no, le due parti intendono mettere preso la parola fine al negoziato. Firmando l’intesa finale prima della partenza di Eveline Widmer Schlumpf. Quindi entro fine anno.

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