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Via Fani, due uomini, due storie, due modi di vivere la strage

di Raffaella Fanelli

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Via Fani, due parole che ormai appartengono per i più ai libri di storia, scritte in una delle pagine più tragiche e inquietanti, di quei libri. Per i più. Per alcuni, chi ci è stato dentro, dall’una o dall’altra parte, quelle due parole sembrano essere ancora il titolo di un incubo che non è mai terminato del tutto.

In questo video due rappresentanti di queste persone.

Giovanni Ricci

È il figlio di Domenico Ricci, assassinato in via Mario Fani a 44 anni mentre guidava la Fiat 130 blu sulla quale viaggiava il presidente della Dc Aldo Moro, rapito il 16 marzo del 1978 e ucciso il 9 maggio, 55 giorni dopo quella strage.

“Nessuno dei brigatisti che ha ucciso mio padre mi ha mai chiesto perdono –racconta Ricci- una suora, tanti anni fa, ci consegnò una lettera scritta da Adriana Faranda… Con lei e con Franco Bonisoli ho avuto dei contatti… ma perdonare, no… Con loro farei un percorso di riconciliazione ma solo dopo l’ammissione di un’assoluta e irrevocabile verità”. Perché a distanza di 37 anni sulla strage di via Fani e sull’omicidio di Aldo Moro la verità non c’è ancora: “Solo i brigatisti potranno rivelarla. E questo mi fa ancora più rabbia. Perché il loro silenzio è il frutto di un accordo con pezzi dello Stato. Il loro tacere è la volontà di mantenere questo patto”..

“Con papà morirono il maresciallo Oreste Leonardi e tutti gli altri uomini della scorta, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e anche Francesco Zizzi, l’unico ad arrivare in un ospedale ancora in vita… Con gli altri familiari stiamo lavorando a una proposta di legge che riproporrà il modello adottato in Sudafrica definito ‘verità contro impunità’ e che permetterà di metterci tutti intorno a un tavolo per capire una volta per tutte come andarono veramente le cose… perché hanno il dovere di dirmi come, e per ordine di chi, fu ucciso mio padre”. Un dovere morale. Che Giovanni Ricci pretende da Mario Moretti, Valerio Morucci, Adriana Faranda, Raffaele Fiore, Franco Bonisoli e perfino da Alessio Casimirri, l’unico da sempre latitante in Nicaragua, l’unico a non aver mai scontato neanche un giorno di carcere.

Un appello e una speranza che, ci permettiamo di pensare e di scrivere, saranno destinati a cadere nel vuoto.

Raimondo Etro

Condannato a 20 anni e 6 mesi di reclusione per il sequestro di Aldo Moro. Etro non ha beneficiato delle leggi su pentiti e dissociati. Nel 2010 ha finito di scontare la pena e ora si occupa di vendita di libri e francobolli online.

“I miei ex compagni –ci dice- vezzeggiati e corteggiati da editori, trasmissioni televisive e università, hanno un credito da eroi perché hanno ucciso… Perché in questo strano Paese i familiari delle vittime sono destinati a cadere nell’oblio mentre i carnefici vengono innalzati a modelli dalla quantità di sangue innocente che hanno versato… Chi, come me, si rifiutò di uccidere non è un ospite ricercato”. E lui, Raimondo Etro, si rifiutò di sparare sul giudice Riccardo Palma “giustiziato” dalle Br con venti proiettili calibro 22 winchester esplosi da Prospero Gallinari e Alvaro Lojacono il 14 febbraio 1978, un mese prima della strage di via Fani.

Che obbligo avrebbero i suoi ex compagni?
“Quello del silenzio… Un obbligo che io non ho… Ho scontato la mia condanna fino all’ultimo giorno… Sono rimasto fuori dagli accordi”


A che accordi si riferisce?
“Nel carcere di Paliano si crearono complicità tra pentiti e dissociati di estrema destra e di estrema sinistra con il risultato che ancora oggi solo a Roma ci sono 11 delitti rimasti irrisolti. L’idea originaria di non parlare degli omicidi commessi dal movimento ma solo di quelli compiuti dalle organizzazioni armate fu dell’ex brigatista Antonio Savasta, pentitosi subito dopo l’arresto, nel 1982… Quando a Paliano arrivarono Valerio Morucci e Adriana Faranda, il patto scellerato fu definitivamente sancito. Suor Teresa Barillà, amica di Francesco Cossiga, portò in carcere da Morucci il giornalista democristiano Remigio Cavedon. Iniziarono a incontrarsi quotidianamente per scrivere la ricostruzione del sequestro Moro, il cosiddetto memoriale Morucci che Cossiga conservò in un cassetto per quattro anni. Lo rese pubblico solo nel 1990 quando i brigatisti cominciarono a beneficiare della legge Gozzini”.

Sta dicendo che il memoriale Morucci è frutto di un patto di omertà?
“Dico che i brigatisti non hanno detto tutta la verità”.

Quando fu deciso il giorno della strage?
“Ci furono delle riunioni operative dove furono decisi giorno e ora dell’agguato… oltre ai dettagli tecnici”.

I dettagli tecnici di una strage che ancora oggi presenta molti lati oscuri nonostante i processi e le diverse commissioni d’inchiesta. L’ultima, presieduta da Giuseppe Fioroni ha promesso “elementi di interesse per la magistratura”. Elementi attesi per fine mandato e che serviranno forse per stabilire una verità storica. Di certo non giudiziaria. E che potranno saldare quel debito che Giovanni Ricci pretende da chi non conosce morale.

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