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Quelle piccole ma preziose gocce nel mare della grande crisi

Tempi moderni, soluzioni antiche? Keystone

di Aldo Sofia

Ci sono notizie e notizie. Grandi titoli, o fondo pagina. Così, nel giro di pochi giorni, te ne ritrovi sotto gli occhi due di segno opposto, e relative alla crisi economica che “morde” il Bel Paese. La prima, giornalisticamente da grande titolo, ci viene dall’ultima statistica del CENSIS (Centro studi investimenti sociali). Segnala che le dieci persone più ricche d’Italia dispongono di un patrimonio di 75 miliardi di euro, pari a quello di cinquecentomila famiglie operaie messe assieme, a conferma che nella Penisola si allarga inesorabilmente la forbice delle disparità sociali. Insomma, ricchi sempre più ricchi, poveri e classe media sempre più in difficoltà.

Il secondo titolo, che occupa uno spazio a fondo pagina, recita così: “Quelle 40 aziende rilevate (e salvate) dai dipendenti”.

In gergo si chiamano “Wbo”. Cioè “Workers buy out”. Tradotto in italiano, si tratta dell’operazione che trasforma i dipendenti di un’azienda – riuniti in cooperativa – nei suoi proprietari. Società nate in Gran Bretagna durante gli scossoni della seconda rivoluzione industriale. Hanno poi avuto una certa diffusione negli Stati Uniti flagellata dalla scrissi industriale. Ma il loro successo lo hanno registrato soprattutto, pensate un po’, nell’Argentina che agli inizi del Duemila finì praticamente in bancarotta: col sistema “Wbo”, salvate 350 imprese per migliaia di posti di lavoro.

In Italia sono ancora poche decine. Ma il trend é in aumento. Ci sono stati casi clamorosi. Quello di Cristian Stangalini, 44 anni, licenziato dalla Metal Welding Wire di Padova insieme ad altri 42 dipendenti. Lui, ex direttore dell’azienda, decise di vendere la sua casa di Como e di riassumere 15 dei suoi ex collaboratori. Con la sua nuova società, la Open-Fili, viaggia ora a gonfie vele, lavorando soprattutto con i vecchi clienti dell’azienda che li aveva messi alla porta. Oppure c’é il caso della Buileri Brevetti (Pisa), produttrice di macchinari a controllo numerico, messa in liquidazione nonostante sei milioni di euro di commesse, e salvata, dopo 18 lunghi mesi di manifestazioni e proteste, da una cooperativa formata dai dipendenti.

Più recente, il caso della Reviplast di Ravenna (gomma-plastica). Dichiarata insolvente e finita sotto gestione commissariale. Venticinque dipendenti decidono di rilevarla. Come? Con un taglio del 20 per cento della busta paga, cura dimagrante della gestione amministrativa, e una job rotation con cui quasi nessuno svolge una sola mansione, ma si divide fra più compiti e più funzioni. C’era tuttavia bisogno di immettere denaro fresco. Così i dipendenti neo-azionisti raccolgono 450 mila euro anticipando (e quindi accettando di rischiare) la propria quota di mobilità Inps, in buona sostanza la loro pensione. Ma ancora non basta. Per decollare ne occorrono altri 450 mila. Che, valutato positivamente la sostenibilità del business plan prodotto dai lavoratori, vengono versati a titolo di prestito da Coopfond, il fondo mutualistico delle Coopertative, specializzato in operazioni di questo tipo.

Certo, sono soltanto piccole gocce nel mare della grande crisi. E’ raro che vi siano le condizioni economiche-produttive, e non soltanto lo spirito d’iniziativa, per improvvisarsi o diventare “Workers buy out”. Ma sono piccole gocce preziose. Che non stonano affatto nel confronto con quelle 10 persone che da sole dispongono di un patrimonio equivalente a mezzo milione di famiglie italiane.

Aldo Sofia

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