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Quando l’agricoltura è sottratta alle braccia

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La strana bufala della penuria di braccianti lautamente pagati in Ticino

Una volta si diceva braccia rubate all’agricoltura. Ora qui siamo all’opposto. Parlo della bufala (un’altra definizione non la trovo) della mancanza di personale nelle (peraltro non millerrime) fattorie ticinesi.

In pratica. Un apparentemente innocuo annuncio per un piccolo progetto volto a trovare lavoro ad una decina di rifugiati, ha scatenato una sorta di psicosi collettiva per certi versi drammatica in migliaia di disoccupati italiani. L’annuncio offriva, nell’ambito di un progetto nazionale gestito dall’Unione Contadini, 3000 franchi al mese (che in Svizzera sono tutto fuorché uno stipendio alto) per lavorare in un’azienda agricola del piano di Magadino. Annuncio rivolto esclusivamente ai rifugiati riconosciuti, molti dei quali, dopo aver ottenuto l’asilo faticano a trovare lavoro in Svizzera. Niente di che.

Solo che la “notizia” è stata ripresa da Repubblica –in modo sostanzialmente corretto- e poi il tam-tam dei mass media (giornali, siti e via dicendo) ha trasformato l’innocuo annuncio in una specie di tragico miraggio per tanti, tantissimi disoccupati italiani. Ad ogni ribattuta l’articolo perdeva infatti qualche concetto vero e ne acquisiva di falsi. Al punto che un sacco di gente si è convinta che in Ticino ci fosse penuria di addetti alla raccolta di zucchine, pomodori e cipollotti e abbondanza di pingui contadini ansiosi di pagare stipendi principeschi per farlo.

Risultato: l’Unione Contadini è stata bombardata da offerte da oltre confine di persone –quasi tutte disoccupate- pronte a trasferirsi armi e bagagli in Ticino anche il giorno stesso. Tantissimi disoccupati, ma non si pensi solo a operai e studenti. Tra le circa 10mila richieste figurano anche molti laureati, persino un chirurgo.

Ora, quanto accaduto può magari anche far sorridere. E può attirare l’attenzione sui rischi di un’informazione usa-e-getta come sempre più sta purtroppo diventando quella sul web.

Ma soprattutto fa pensare a quanto possa essere differente il valore del denaro (e del lavoro) a poche decine di chilometri di distanza. Com’è possibile che uno stipendio da scuola di sopravvivenza in Svizzera richiami così tanto interesse in Italia?

Ma soprattutto che senso ha questa differenza? Si perché –chiariamo- se qualcuno avesse ottenuto quel lavoro e si fosse trasferito in Ticino, avrebbe faticato ad arrivare alla fine del mese anche se single. Figuriamoci con famiglia a carico.

Il fatto è che tra franco forte, accordi bilaterali, gestione politica, potere economico, la forbice tra Svizzera e Italia si è aperta ad un punto tale che inizia a creare problemi molto seri. Se a Como si riesce a campare con 1000 euro al mese, a Lugano ne servono 3000. Per fare sostanzialmente lo stesso tipo di vita. Col risultato che si creano distorsioni che portano –ad esempio- a code di svizzeri diretti ai supermercati italiani e code di italiani diretti alle fabbriche svizzere.

Il Ticino è ormai per l’Italia una sorta di duty free del lavoro. Questo –come tutti i punti franchi- produce ricchezza, ma presenta delle controindicazioni, al di qua e al di là del confine.

Gino Ceschina

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