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Più espatriati italiani con biglietto di sola andata

Più espatriati con biglietto di sola andata keystone

Allora si chiamava 'littorina' il treno che raccoglieva i passeggeri dei principali paesi sulle pendici dell'Etna, per poi scendere verso Catania. Era solo l'inizio di un viaggio che sembrava un'odissea. Durava più di due giorni. Su convogli coi sedili in legno, e ancora con la terza classe. Arrivati a Milano con fagotti, valigie di cartone, lo spago a tenerle chiuse, e indosso (anche nell'inverno rigido) maglioni fatti a mano ma giacche troppo leggere e troppo strette, si scendeva (anche attraverso i finestrini) su marciapiedi affollatissimi, attenti a non perdersi, in una stanca euforia.

Quel viaggio lo feci anch’io, dopo che mio padre, all’età di appena tredici anni e da solo, in famiglia aveva aperto l’obbligata avventura dell’emigrazione. Così, quando riappaiono dagli archivi le riprese girate alla stazione Centrale, mi è difficile staccare gli occhi da quelle immagini. Adesso è tutto diverso. Si emigra anche con l’aereo low cost, non distingui chi si sposta per un viaggio di piacere e chi viaggia per espatriare, non ci saranno riprese televisive da riesumare.

Eppure da qualche anno l’emigrazione italiana si è rimessa in moto. Massiccia. Anche dell’ultimo dato, ricavato da uno studio della sezione “Migrantes” della CEI e realizzato dalla sociologa Delfina Licata, si parla davvero poco: 107 mila espatriati nel solo 2015. Si tratta del 6 per cento in più rispetto all’anno precedente. Quasi la metà sono giovani sotto i 35 anni. Ai primi tre posti delle destinazioni c’è la Svizzera, preceduta solo da Germania e Gran Bretagna. Quest’anno le previsioni dicono che come minimo si replicherà. La cosiddetta ‘generazione Millennials’ fa insomma le valigie, anche per mete lontanissime, oltre Atlantico e oltre Oceano.

Di questo passo – sostiene la professoressa Licata – “vi sarà una progressiva trasformazione del tessuto sociale italiano, in un quadro già preoccupante di denatalità e indice di vecchiaia alle stelle”. Infatti, per la prima volta dal 1918 vi sono più decessi che nascite, anche calcolando le famiglie di stranieri; circa mezzo milione di anziani riceve la pensione grazie ai contributi di lavoratori immigrati, l’anno scorso gli arrivi dal terzo mondo sono stati 150.000 (profughi), con un saldo che secondo i demografi non basterà comunque a compensare la perdita delle forze produttive. Ormai un italiano su 12 vive fuori dal Paese. All’inizio di quest’anno, gli italiani iscritti all’Aire (l’anagrafe degli Italiani residenti all’estero) hanno raggiunto quota 4 milioni e 800 mila; dieci anni fa erano poco più di 3 milioni; ma sfuggono alle statistiche molti che all’Aire non si sono nemmeno rivolti. Il dato ufficiale è dunque sottostimato. Si parla di una realtà di gran lunga superiore ai 5 milioni.

Emigrare non è di per sé un fatto negativo, anche se all’origine c’è soprattutto la crisi economica e la ricerca di un salario. Un’esperienza all’estero può arricchire in senso lato: una lingua da imparare, nuove realtà con cui confrontarsi e crescere, spesso la possibilità di imparare una nuova professione. Il problema è che i nuovi emigrati italiani prendono quasi sempre un biglietto di sola andata. E il problema, perché di problema ormai si tratta, è che il mancato ritorno riguarda principalmente i giovani laureati. È l’altro lato oscuro della cosiddetta “fuga dei cervelli”. Per capire, ancora una volta è utile dirlo con i numeri: nel 2014 -ultimo dato riferito dall’Istat – i migranti italiani furono poco più di centomila, e i rientri soltanto 30 mila.

In un paese dove fin troppi problemi vengono vissuti e trattati come eventi emergenziali, stranamente il tema degli espatrii senza ritorno viene pochissimo esaminato e discusso. Un campanello d’allarme che non suona mai, o quasi. “Dobbiamo farli tornare”, ha finalmente ammonito il presidente Mattarella. Ma in che modo, con quali ricette, con quali riforme, con quali strumenti davvero attrattivi, nessuno lo dice.

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