Petrolio a basso prezzo? Riyad può permetterselo
di Jacopo Brilli, Lavoce.info
Prezzi e produzione di petrolio
La decisione presa dall’Opec in dicembre di non ridurre la produzione di greggio è stata interpretata da molti come un fallimento dell’organizzazione. Si tratta però di una prospettiva che rischia di non dar conto in maniera adeguata della complessità della strategia dell’Arabia Saudita e dei rapporti di forza tra i membri dell’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio.
Negli anni Ottanta i paesi Opec si trovarono a far fronte a condizioni di mercato simili a quelle attuali: domanda relativamente debole e incremento della produzione dei paesi non Opec.
Inizialmente, l’Arabia Saudita reagì cercando di difendere il prezzo ufficiale Opec. La strategia di fatto risultò in un trasferimento di quote di mercato dall’Arabia Saudita ad altri paesi dell’organizzazione e dai paesi Opec a quelli non Opec. Solo nel 1985 Riyad e gli altri paesi Opec incrementarono la produzione provocando il crollo dei prezzi del 1986, con il barile sceso al minimo storico di 9,85 dollari.
È dunque possibile che la decisione saudita di inizio dicembre 2015 di non ridurre la produzione sia stata presa sulla scorta degli eventi avvenuti tra il 1980 e il 1986. Questa volta, sin dall’inizio l’Arabia Saudita ha deciso di mantenere le sue quote di mercato a scapito dei concorrenti Opec e non Opec.
Ricchezze d’Arabia
Secondo le stime pubblicate dal Fondo monetario internazionale nell’ottobre 2015, per raggiungere il pareggio di bilancio, l’Arabia Saudita ha bisogno di un prezzo per barile di 85 dollari.
Ciò introduce un criterio che, sebbene approssimativo (file pdfCollegamento esterno), consente di individuare un limite nella strategia saudita. Molti analisti infatti ne hanno concluso che si arriverà presto a un taglio della produzione Opec perché i paesi membri vi saranno costretti per limitare il disavanzo e mantenere il consenso politico. E l’Arabia Saudita non farà eccezione.
Tuttavia, nel novembre 2015 Riyad ha emesso debito pubblico collocato presso investitori istituzionali sauditi (l’ultima volta accadde nel 2007). L’iniziativa è stata accompagnata da una revisione di alcune voci di spesa e dalla riduzione dei sussidi ai carburanti, una decisione certamente non popolare, ma non drammatica in un paese in cui non si pagano tasse sul reddito. Il collocamento dei titoli di stato presso investitori sauditi è inoltre sostanzialmente immune dallo scrutinio del mercato e delle società di rating.
Oltre che sullo strumento tradizionale del debito pubblico, l’Arabia Saudita può contare sul fondo sovrano Sama Foreign Holdings che detiene attività per circa 752 miliardi di dollari. Questi investimenti, oltre a generare reddito, possono essere liquidati per far fronte a eventuali esigenze di cassa.
Intanto, Saudi Aramco, la compagnia di stato saudita, l’8 gennaio 2016 ha annunciato che è in corso lo studio per una privatizzazione parzialeCollegamento esterno tramite quotazione in borsa di alcune sue attività. L’annuncio ha suscitato molto interesse ed è stato messo in relazione con i prezzi bassi del petrolio. L’operazione, se dovesse proseguire, sarà condotta entro limiti molti precisi: Saudi Aramco sarà quotata sulla borsa di Riyad e probabilmente la vendita sarà limitata ancora una volta a soggetti istituzionali sauditi. La quotazione su un mercato internazionale richiederebbe infatti una trasparenza e un sistema di governance rigorosi e Aramco dovrebbe accettare una verifica puntuale e trasparente delle sue riserve di idrocarburi, difficilmente proponibile in una prospettiva di equilibri interni all’Opec. Dal comunicato di Aramco traspare inoltre che la cessione potrebbe riguardare il comparto della raffinazione, il cosiddetto downstream.
Secondo il Fondo monetario, l’Arabia saudita potrebbe resistere fino a cinque anni di prezzi del petrolio bassi (file pdfCollegamento esterno), senza tenere conto di eventuali aggiustamenti di spesa, fondi sovrani o emissione di debito.
Opec sempre più saudita
L’Arabia Saudita ha pieno accesso al sistema finanziario globale. Il suo mercato è molto più aperto a investitori esteri di quello iraniano. Oltre a un ricco fondo sovrano, dispone di una spare capacity (capacità produttiva inutilizzata effettivamente disponibile) che gli altri paesi Opec non hanno. L’industria petrolifera iraniana, per esempio, deve rinnovare gli impianti resi obsoleti da anni di sanzioni e avrà bisogno di forti investimenti diretti dall’estero e di un lungo periodo prima di poterne creare una significativa. La capacità del governo iraniano di aprire l’economia agli investitori esteri fornirà la misura della ripresa del paese, ma il percorso non si preannuncia facile (si veda Cyrus Amir-Mokri e Hamid Biglari, “A Windfall for Iran? The end of Sanctions and the Iranian Economy”, Foreign Affairs, Vol 94, no. 6).
L’Arabia Saudita detiene significative risorse finanziare che ancora non ha impiegato per far fronte alle sue esigenze di bilancio. E oggi nessun altro paese Opec possiede i tre elementi fondamentali per orientare le politiche dell’organizzazione: risorse finanziare, industria all’avanguardia, significativa spare capacity. Niente induce a ritenere che la situazione possa cambiare in tempi brevi. Sarebbe forse più opportuno parlare, allora, non tanto di un fallimento, quanto di un’Opec sempre più saudita, attribuire il giusto peso alla potenziale e parziale privatizzazione di Saudi Aramco e non avere troppe aspettative rispetto alle notizie di un coordinamento tra Russia e Arabia Saudita o altri paesi produttori.
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