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“Pied’arm”, e Renzi frena sulla guerra

tvsvizzera

di Aldo Sofia

“Armiamoci e partite”, recitava Totò nel film della guerra a Maciste. Battuta spesso citata anche nella vulgata popolare per dire della scarsa propensione degli italiani per i conflitti armati. Ma stavolta non c’è nemmeno il “partite”. In Libia non si va, annuncia Renzi, non davanti al parlamento, come detterebbe il buon senso e la buona decenza politico-istituzionale, bensì nel salottino televisivo di Barbara d’Urso, accomodante e protesa, dal bordo della sua poltroncina, verso il potente di turno (“intervista assistita”, come le definisce mia moglie, alla quale non manca una buona dose di humor). Meglio così, nel senso che non ci si infila disinvoltamente nelle potenziali tagliole di una missione militare ad alto rischio. Eppure la reginetta dell’ “infotainment rosa” avrebbe potuto scomodarsi – sempre che ne sia in grado – per piazzare al capo del governo qualche domanda…scomoda.

Basterebbe del resto ripercorrere l’iter più recente della “questione libica”. Inizialmente Matteo Renzi reclama la guida della coalizione militare (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia e chi altri ancora non si sa). Subito gli Stati Uniti dichiarano entusiasticamente di “sostenere con forza” la legittima richiesta italiana. Viene quindi annunciato che sarà Roma ad ospitare il centro di coordinamento. Addirittura si fa il nome del generale Paolo Serra come ufficiale in pole position per assumerne il comando. E, ancora, l’ambasciatore statunitense rilascia un’intervista al “Corrierone” in cui arriva a quantificare il numero dei soldati italiani impegnati nella missione, “cinquemila” sostiene con assoluta sicurezza, ed è difficile immaginare che quella cifra, così netta e categorica, non gli sia stata comunicata dal ministero della difesa o dai vertici dell’esercito. Insomma, un’atematica escalation verbale. Insomma, la roboante politica degli annunci.

Invece, ecco la brusca frenata. A poche decine di km dalle coste italiane, l’Isis può aspettare. Ed eventualmente proliferare. “Pied’arm”, ordina infatti Renzi. Prima di “partire”, la caotica Libia dovrà avere un governo stabile, un parlamento in grado di funzionare, l’unanime volontà di chiedere ufficialmente l’intervento esterno. Insomma, campa cavallo. E’ possibile che, fra un proclama e l’altro, Renzi abbia ricevuto l’esito di sondaggi sottotraccia che confermano l’ostilità dell’opinione pubblica per questo tipo di missione. Può essere stata anche la dolorosa (e in parte misteriosa) vicenda degli ostaggi a segnalargli in quale vespaio c’è rischio di infilarsi. Può anche essere che abbia ricevuto qualche buon consiglio da chi – oltre a sottolineare qualche brutta avventura militare italiana in quella terra – gli ha ricordato come, in Medio Oriente, tutte le missioni di “potenze straniere” si siano concluse con un alto prezzo di sangue e senza apprezzabili esiti per la stabilità politica regionale.

Del resto, c’è chi ha fatto notare come la prudenza sull’ipotesi dell’avventura militare libica sia stata “l’unica azione – nei suoi due anni di governo – per cui il premier abbia ricevuto consensi pressoché unanimi”. Unanimità giustificata nel quinto anniversario (era l’11 marzo del 2011) dell’intervento che poi portò sì all’abbattimento e alla barbara eliminazione di Gheddafi, ma che, nella totale assenza di un piano per il dopo-guerra, consegnò il paese al dominio di innumerevoli, litigiose, sanguinarie bande armate. In cui gli uomini del Califfato si sono facilmente infiltrati.

Dopo aver baciato le mani di Gheddafi, tutti ricordano come, magari di malavoglia, Berlusconi si lasciò trascinare in quella guerra, per poi rovesciarne la responsabilità sull’ex presidente Napolitano e sulle pressioni della sinistra. In Renzi vi sono tratti evidenti di berlusconismo. Ma non al punto di imitarlo di fronte alla trappola di quello che un tempo Salvemini definì “lo scatolone di sabbia”. Ancora non avevano scoperto che sotto lo scatolone vi erano enormi giacimenti petroliferi.

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