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Salvini, dalla Padania nazionalismo senza tricolore

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di Aldo Sofia

L’indipendenza della Padania? Il federalismo, le ampolle alla foce del Po, i raduni sul prato di Pontida? Tutto messo da parte. Magari da recuperare in chissà quale futuro, ma per il momento da confinare ai margini. Se non fosse per l’avversione all’immigrazione clandestina (con rituale contorno di insulti e bassezze), la Lega Nord sembra un “mutante”. Che aggiorna il suo DNA politico. Che imbocca una sorta di “second life”.

E lo stratega della trasformazione si chiama Matteo Salvini, l’uomo che aveva raccolto tra non poche difficoltà l’eredità dei Lumbard finiti nel cono d’ombra degli scandali in cui l’avevano trascinata, dopo gli anni ruggenti, la disinvoltura e l’ingordigia del clan Bossi, ormai praticamente già finito nella galleria dei ricordi. Una svolta in apparenza vincente, premiata dai sondaggi: raggiunta a fatica la soglia del 4 per cento alle elezioni europee dello scorso maggio, ora la Lega è accreditata del doppio, e anche di più.

Ormai piccolo e ruvido principe dei salotti televisivi (lo scettro del primato rimane all’altro Matteo, Renzi), abbandonato il “padanismo” di maniera (o lasciato furbescamente ad altri esponenti dei lumbard), avvantaggiato dalle difficoltà di un Beppe Grillo senza bussola, il giovane segretario leghista va a caccia nello spazio vuoto lasciato libero, a destra, dal declino berlusconiano e dall’inconsistenza dei suoi alleati post-missini.

Altro che “costola della sinistra”, come D’Alema ebbe a definire la Lega della prima fase, quella dell’ideologo Miglio e del Bossi in canotta, che tradì il cavaliere prima di abbracciarlo definitivamente. Non era “costola della sinistra” vent’anni fa, e tantomeno lo è oggi, con Salvini alla ricerca di una nuova forma di identità populista e sociale, sulle tracce di colei che è ormai la sua “stella polare”, Marine Le Pen, la leader in vertiginosa ascesa del Front National francese. Con cui condivide il tiro al bersaglio grosso: l’Europa, l’euro, la burocrazia di Bruxelles, i suoi tecnocrati, il capitale finanziario contro il popolo delle botteghe e dei piccoli imprenditori sempre più nelle spire della crisi economica e della paura della mondializzazione.

Il Salvini che difende i secessionisti ucraini, esalta come autentico democratico Vladimir Putin e ne ottiene la “benedizione”, accetta selle sue piazze i neo-nazisti di Casa Pound (ma senza simboli nazionali), e va in pellegrinaggio nella Corea del Nord su incoraggiamento di un Antonio Razzi (il senatore passato armi, bagagli e qualche soldo in più ai banchi berlusconiani), che afferma senza il minimo imbarazzo che nell’inferno del “piccolo leader” Kim Jon-un i lager sono in realtà magnifiche serre di verdura e frutta al servizio del popolo.

Tutti alleati iper-nazionalisti, centralisti, statalisti, gente a cui viene l’orticaria al minimo accenno di legittimi movimenti secessionisti all’interno dei loro paesi. Strani compagni di viaggio per chi fino a ieri esaltava il federalismo come anticamera dell’indipendenza padana. E che ora si propone invece come il “difensore degli Italiani”. Liquidando lo stridente paradosso con la battuta : “non c’é federalismo se non c’è Italia, e oggi l’Italia sta affondando”. Una bella spruzzata di nazionalismo senza tricolore. Poi, per le “piccole patrie”, si vedrà.

Aldo Sofia

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