Le fucilate del San Gottardo: quando la Svizzera sparò sui minatori italiani

Centocinquant'anni fa, per la prima volta nella storia della Svizzera moderna, uno sciopero venne represso nel sangue. A Göschenen, la protesta di migliaia di operai impiegati nella costruzione della galleria del San Gottardo fu stroncata dalle fucilate. Il bilancio: quattro lavoratori italiani morti e un numero imprecisato di feriti.
Uscivano quasi boccheggianti dal cunicolo, dove l’aria era irrespirabile e la temperatura raggiungeva i 35°C. I loro volti erano anneriti dalla polvere e dal fumo delle lampade. Una scena che si ripeteva quotidianamente all’entrata del tunnel di Göschenen. Ma il 27 luglio 1875 alcuni minatori italiani abbandonarono il fronte di avanzamento prima della fine del loro sfiancante turno. “A un assistente dell’impresa spiegano che è impossibile continuare lo scavo nel fumo denso e asfissiante, lasciato stagnare da una ventilazione insufficiente”, scrive lo storico Orazio Martinetti, autore del libro Minatori, terrazzieri e ordine pubblico: per una storia sociale delle grandi opere ferroviarie ticinesi.
Condizioni di lavoro disumane
Era l’inizio di una protesta covata da tempo e che quel martedì esplose definitivamente. A quel manipolo di uomini che per primi incrociarono le braccia si unirono sempre più operai. “Come spesso accade, all’origine di una mobilitazione non c’è mai un solo fattore, bensì un insieme di concause”, ricorda Martinetti. A innescare la protesta furono le condizioni di lavoro in galleria, che peggioravano man mano che lo scavo avanzava nel cuore della montagna. “In galleria circolavano locomotive a vapore, faceva caldo e l’aria era irrespirabile: puzzava di gas delle esplosioni, di escrementi di uomini e cavalli che galleggiavano nell’acqua alta fino al ginocchio”, spiega lo storico indipendente Helmut Stalder, docente universitario e autore del libro Gotthard. Der Pass und sein Mythos.Collegamento esterno
Secondo Orazio Martinetti, esperto dei movimenti sociali, nel corso di uno sciopero convergono molte rivendicazioni. “Nel caso specifico, la ventilazione, ma poi anche le retribuzioni – le mercedi, nel linguaggio dell’epoca –, le condizioni abitative e l’alimentazione”. Un minatore guadagnava 3,90 franchi al giorno, chi spingeva i carrelli pieni di detriti 3,50. Inoltre, gli operai dovevano pagare 5 franchi per la lampada da galleria e 30 centesimi al giorno per l’olio. Spesso erano alloggiati in stalle e fienili, insieme agli animali. Vivevano ammassati gli uni sugli altri, dividendosi a turno un letto, su cui dormivano con gli abiti e gli scarponi indossati in galleria. “Lo sappiamo dai rapporti che i medici condotti ci hanno lasciato”, evidenzia Martinetti. “Sono testimonianze che descrivono con una certa precisione ciò che accadeva intorno alla linea: nei punti di ristoro, nelle osterie, negli spacci – tra l’altro gestiti dall’impresa. Locali sovraffollati, sporchi, privi di acqua corrente e di fognature. Le risse erano frequenti, alimentate dal consumo di alcol”.

Sciopero represso nel sangue
Gli operai ne avevano abbastanza e, nell’estate di 150 anni fa, dopo che le loro rivendicazioni furono ignorate dagli ingegneri dell’impresa, armati di spranghe di ferro e bastoni decisero di bloccare l’ingresso della galleria sul versante nord. Era la mattina del 28 luglio 1875 e più di un migliaio di lavoratori occupò la strada principale di Göschenen. La loro richiesta era un aumento salariale di un franco al giorno. L’ingegnere Louis Favre non aveva tempo per trattare con gli scioperanti – era già in ritardo sulla tabella di marcia dello scavo – e inviò quindi un telegramma al governo urano, chiedendo l’invio di un contingente armato. Da Altdorf partirono i sette agenti disponibili. “Avevano l’ordine di reclutare lungo il percorso rinforzi supplementari”, spiega Stalder. “Furono così assoldati altri quindici uomini, per lo più operai stranieri. A Göschenen venne inoltre organizzata una guardia civica di dieci uomini”.
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L’ingiustizia di Mattmark
Arrivato sul luogo dello sciopero, questo drappello improvvisato si trovò di fronte oltre un migliaio di minatori. Volarono i primi sassi, che diventarono presto una sassaiola. Gli agenti e i civili armati risposero sparando: prima in aria, poi ad altezza d’uomo. Sul terreno rimasero quattro italiani senza vita e un numero imprecisato di feriti. “Dello sciopero non è rimasto che uno schizzo, per di più di parte”, ricorda Martinetti. “Il disegno ritrae da un lato la guardia civica che fa fuoco sugli operai, dall’altro i partecipanti al tumulto. Uno di loro è ritratto mentre brandisce una rivoltella: un falso, perché non risulta che gli scioperanti fossero armati. Non esistono per contro fotografie, né dello sciopero né di altri episodi significativi verificatisi lungo la linea”.

Le cause indirette dell’agitazione
Era la prima volta nella storia della Svizzera moderna che uno sciopero veniva represso nel sangue. “Per accertare lo svolgimento dei fatti, il Consiglio federale incaricò un ufficiale dell’esercito, il grigionese Hans Hold, di redigere un rapporto sui disordini a Göschenen”, continua Martinetti. “Il rapporto, che non ebbe conseguenze di tipo penale per l’impresario Favre, ebbe il pregio di fare luce sugli aspetti negativi di quella grandiosa epopea nel cuore delle Alpi: le condizioni di lavoro, le retribuzioni, gli alloggi, le relazioni con le popolazioni autoctone, soprattutto con le donne”.
Quello dei minatori era un lavoro sfibrante, svolto in condizioni disumane, che la manodopera locale preferiva lasciare agli operai del Nord Italia. È così che nella valle della Reuss e in Leventina giunsero migliaia di operai, soprattutto italiani, reclutati nella Pianura padana e in Piemonte. Göschenen, prima dell’apertura del cantiere, contava circa 300 abitanti, la maggior parte contadini di montagna. Poi il villaggio cambiò volto. Secondo un censimento del 1880 vi vivevano 2990 persone, di cui 2440 erano operai stranieri con le loro famiglie. “Erano per lo più semplici contadini delle montagne venete e friulane, provenienti dalle province di Belluno e Udine”, osserva lo storico Helmut Stalder. “Erano emarginati, con una lingua e abitudini diverse, segnati dalla povertà e vittime delle ostilità della popolazione locale e obbligati a vivere nei primi e più miserabili ghetti della Svizzera”.
Originario di Ginevra, Louis Favre, carpentiere di formazione, aveva studiato architettura e si era formato da autodidatta come ingegnere. Aveva costruito tunnel e infrastrutture ferroviarie in Svizzera e in Francia, ma la sua esperienza era limitata: fino ad allora, il suo traforo più lungo non superava il chilometro. “Un progetto delle dimensioni del tunnel del San Gottardo andava ben oltre le sue esperienze”, sottolinea Stalder. “Era un uomo estremamente ambizioso e desiderava quell’appalto a tutti i costi”.
Favre sbaragliò la concorrenza – la ben più competente ditta Grattoni, che aveva appena concluso la costruzione del tunnel del Moncenisio – con un’offerta nettamente più vantaggiosa per la Società della ferrovia del Gottardo. “L’accordo draconiano che firmò – ricorda lo storico – lo obbligava a pagare 5’000 franchi per ogni giorno di ritardo nei primi sei mesi, una penale che in seguito saliva a 10’000 franchi”.
Le caratteristiche del terreno provocarono difficoltà tecniche inattese, che i sistemi di perforazione e compressione sviluppati da alcuni ingegneri ginevrini non furono in grado di risolvere. Vincolato dalle clausole del contratto, Favre dovette affrontare anche gravi problemi finanziari. Morì in cantiere, sette mesi prima che venisse abbattuto l’ultimo diaframma del traforo.
Molti più morti che in altri cantieri dell’epoca
Colpevole di questo disagio sociale era anche Louis Favre, ingegnere e direttore dei lavori al traforo, che non aveva né i mezzi finanziari né il tempo per assicurare condizioni di vita dignitose e garantire standard minimi di sicurezza. “Gli operai venivano continuamente investiti dai carrelli, colpiti da cadute di massi o dilaniati dalle esplosioni. Ben presto si contarono centinaia di morti e feriti”, spiega Stalder. In totale, la costruzione del tunnel, comprese le tratte di accesso, provocò almeno 310 morti per incidenti e 955 feriti. Nel lavoro di scavo persero la vita almeno 199 persone, dunque 13,3 operai ogni chilometro di avanzamento. Un numero impressionante se confrontato con altri grandi cantieri dell’epoca: al Sempione i morti furono 2,6 per chilometro, al Moncenisio 6,2 e al Lötschberg 7,7.
Ma non furono solo gli incidenti a decimare i lavoratori. Molti si ammalavano e spesso languivano negli ospedali da campo. “Venivano liquidati con 40 o 100 franchi e rispediti in Italia, dove spesso morivano poco dopo”, ricorda Helmut Stalder. La direzione dei lavori parlava genericamente di “malattia dei minatori”, dovuta alla polvere di quarzo delle gallerie, quella che oggi conosciamo come silicosi. “Nel tunnel – aggiunge Orazio Martinetti – si era creato un microclima di tipo tropicale, con alte temperature che favorivano la proliferazione di un parassita vermiforme che si annidava nell’intestino tenue dei minatori. In pratica li rendeva anemici: la malattia era nota con il nome di anchilostoma duodenale”.

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