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Volti vecchi e volti nuovi dell’immigrazione italiana in Svizzera

Gastarbeiter italiani in Svizzera.
Secondo Paolo Ruspini, "le prime generazioni hanno uno sguardo benevolo verso quelle più giovani che non arrivano più con le valigie di cartone, anche se continuano ad arrivare". ©KEYSTONE/PHOTOPRESS-ARCHIV/Reto Schneider

Intervista al professor Paolo Ruspini che ha studiato l'importanza della memoria e della sua narrazione nella costruzione della propria identità nazionale.

Paolo Ruspini è professore associato dell’Università degli Studi Roma Tre e ricercatore associato all’Università di Ginevra. Nel suo ultimo libro Memoria e Migrazioni – Percorsi di ricerca tra Svizzera e Italia in prospettiva transnazionale (Mimesis Edizioni, 2024) espone i risultati delle sue ricerche empiriche nell’ambito della migrazione italiana verso la Svizzera.

Abbiamo approfittato per intervistarlo sull’importanza della memoria, di cui parla approfonditamente il suo volume, ma anche su quanto sono diverse le persone che immigrano oggi dall’Italia in Svizzera rispetto alle generazioni passate.

Tvsvizzera.it: Il suo libro, già dal titolo, è incentrato su due concetti legati tra loro: memoria e migrazione. La memoria è secondo lei alla base della costruzione della propria identità?

Paolo Ruspini: Assolutamente sì. E in quest’ottica è fondamentale rapportarsi correttamente con la memoria. Soprattutto in ambito migratorio, infatti, la costruzione della propria identità è veicolata in buona parte dalla trasmissione della memoria sia nella narrazione intergenerazionale sia in quella transnazionale.

copertina libro
“Memoria e Migrazioni – Percorsi di ricerca tra Svizzera e Italia in prospettiva transnazionale”. TVS

Rispetto al passato, oggi le migrazioni non rappresentano più un momento significativo di rottura con i luoghi di origine: da qui l’importanza dell’aspetto transnazionale, in aggiunta al racconto intergenerazionale che una volta – per forza di cose – dominava.

Oggigiorno invece ci sono persone, o gruppi di migranti, che mantengono contatti forti con il contesto d’origine senza fondamentalmente spostarsi dalla propria nuova residenza, grazie alla possibilità di comunicare con il resto del mondo attraverso le nuove tecnologie.
 
In che modo il concetto di transnazionalismo contribuisce alla comprensione dei fenomeni migratori contemporanei?

Permette di leggere la migrazione come uno scambio continuo tra Paesi d’origine e di destinazione. Oggi, grazie alla globalizzazione, alle tecnologie e ai trasporti, è possibile mantenere forti legami con il proprio contesto d’origine senza doverlo fisicamente raggiungere. C’è una mobilità virtuale che si affianca a quella fisica, quest’ultima è inoltre incentivata dalla possibilità di viaggi rapidi e a basso costo.
 
Questa mobilità e l’accessibilità alla tecnologia vengono sempre sfruttati?

No. Semplificando, ci sono più tipi di migranti. Non tutti hanno accesso alla mobilità nelle stesse condizioni, in parte per una questione di possibilità; ma soprattutto perché le seconde e terze generazioni e le persone migranti di prima generazione arrivati il secolo scorso hanno, per consuetudine, un approccio diverso alla questione.

Le cose sono iniziate a cambiare già dalla metà degli anni Novanta e non solo in Svizzera o in Italia. Studi nordamericani hanno messo in luce come le persone migranti mantengano legami costanti e strutturati con il proprio Paese di provenienza, anche attraverso le rimesse, ossia il denaro che inviano alle famiglie di origine e che, in alcuni case, rappresentano una componente consistente del PIL di un Paese.

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Il suo lavoro tocca anche l’aspetto della memoria collettiva. In che modo questa si inserisce nel discorso migratorio?

La memoria non deve essere vista solo in ottica nazionale. È qualcosa che non va rigidamente inquadrata dentro i confini dello Stato-nazione, ma li attraversa. Questa premessa è cruciale per contrastare il ritorno di nazionalismi e sovranismi.

Analizzando la storia dell’Italia, vediamo che è un Paese che ha vissuto una forte emigrazione globale nel secolo scorso o internamente verso altre regioni. Eppure, fatica a riconoscersi a sua volta come Paese multiculturale.
 
Quindi anche la memoria dei flussi migratori italiani è parte di questo discorso?

Sì, certo. Pensiamo all’emigrazione italiana verso la Svizzera. Già nei primi del ’900 con la costruzione delle ferrovie, e poi massicciamente dagli anni Cinquanta, con i cosiddetti Gastarbeiter, i lavoratori ospiti nell’accezione tedesca entrata nella letteratura sulle migrazioni per definire i “lavoratori temporanei”.

In Italia c’era un surplus di manodopera e la Svizzera, con gli accordi bilaterali, ha assorbito molti di questi lavoratori italiani. Negli anni Settanta sono poi iniziati i ricongiungimenti familiari. Oggi, la situazione è cambiata radicalmente.
 
Come si differenzia la percezione della migrazione tra le generazioni italiane in Svizzera?

Ci sono profonde differenze. Le persone migranti delle generazioni precedenti si sono inserite in un contesto lavorativo diverso, spesso ostile, e vivevano in condizioni di precarietà.

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I giovani e le giovani di oggi, invece, spesso arrivano con titoli di studio elevati, competenze linguistiche, e si inseriscono in settori qualificati, come quello economico-finanziario o dell’istruzione. Tuttavia, anche loro non sono esenti da discriminazioni, come per esempio quelle legate ai criteri preferenziali nel mercato del lavoro per gli autoctoni.

Le ricerche che abbiamo svolto sulle seconde generazioni in Svizzera documentano episodi in cui ad alcune persone, che pur avevano i titoli adatti a un posto, venivano preferiti candidati locali. Oppure situazioni in cui persone con cittadinanza svizzera ma con tratti o nomi non “autoctoni” venivano trattate con sospetto, non solo in ambito lavorativo ma anche, ad esempio, nella ricerca di un alloggio.
 
Se la narrazione della propria esperienza plasma la percezione che si ha della stessa, qual è la percezione dominante delle persone italiane in Svizzera?

Le prime generazioni hanno uno sguardo benevolo verso quelle più giovani che non arrivano più con le valigie di cartone, anche se continuano ad arrivare. Ma è un arrivare diverso. Negli anni Cinquanta l’Italia aveva un surplus di braccia; oggi invece la carenza di manodopera c’è anche lì e – anche se non unicamente loro – arrivano persone che possono scegliere di meglio. Le prime generazioni accettavano un po’ tutto.

C’è poi un certo orgoglio verso il contributo che la propria comunità ha dato alla Svizzera, soprattutto a livello urbanistico con la costruzione delle ferrovie, delle gallerie, eccetera a fronte del relativo costo umano sofferto.

Le seconde e terze generazioni sentono maggiormente il peso del pregiudizio nei propri confronti. Sono nate in Svizzera o vi sono arrivate da piccole. Si sono formate e hanno socializzato in questo Paese e ritengono ingiuste le discriminazioni nei propri confronti.

La memoria non deve essere vista come un dispositivo bloccante. Al contrario, è uno strumento fondamentale per valorizzare il presente.

Queste stesse generazioni conservano però anche tracce della cultura dei genitori e sono un ponte fondamentale tra la famiglia di origine e il contesto ospitante. Se valorizzate, le esperienze di queste persone possono offrire una visione ricca e articolata dell’identità contemporanea.

Infine, le nuove generazioni di immigrati hanno una dinamicità diversa e una maggiore consapevolezza del proprio valore in quanto lavoratori. Ma è comunque presente la percezione di un pregiudizio e le ricerche mostrano che in molti casi ci sia una certa tendenza al mimetismo, ossia a sottacere o non enfatizzare la propria provenienza. Anche se questo fenomeno è emerso soprattutto in ricerche riguardanti persone originarie di alcune regioni dei Balcani.

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Non c’è il rischio che l’enfasi sulla memoria contribuisca a fossilizzare un’immagine della migrazione come fenomeno del passato, impedendo di coglierne le trasformazioni?

Capisco la provocazione, ma no. La memoria non deve essere vista come un dispositivo bloccante. Al contrario, è uno strumento fondamentale per valorizzare il presente. Aiuta a capire da dove si viene per sapere dove si va.

Molti dei migranti anziani, per esempio, mantengono legami attivi con il proprio Paese d’origine, costruendo case nei contesti rurali italiani e contribuendo a rivitalizzarli. Il caso di Riace è emblematico come esempio dell’incontro tra nuove e vecchie migrazioni.

C’è anche una narrazione positiva su molte e molti giovani italiani all’estero.

Tanti sono qualificati, motivati, consapevoli del proprio valore. Ma se vengono messi in una posizione di contrapposizione – noi/loro – allora può emergere una reazione difensiva, anche identitaria. È un meccanismo psicologico comune. In ogni caso, tutte queste esperienze – vecchie e nuove – mostrano quanto le migrazioni contribuiscano alla costruzione dell’identità, non solo dei migranti, ma delle stesse società ospiti.

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