Sale la pressione sulle imprese svizzere con investimenti in Israele
Con l'attuale situazione geopolitica cresce la pressione sulle imprese svizzere con investimenti in Israele. In pochi, però, hanno deciso di cambiare strategia.
Una sessantina di società è stata chiamata in causa dalla Relatrice speciale dell’Onu per i territori palestinesi, Francesca Albanese, in un rapporto pubblicato l’estate scorsa. Fra le società citate era presente Glencore, indicata da Albanese come il principale esportatore – assieme all’americana Drummond – di carbone utilizzato per generale elettricità nello Stato ebraico. La richiesta era quella di interrompere le attività nel Paese. Contattata dall’agenzia finanziaria AWP, Glencore non ha rilasciato dichiarazioni.
La multinazionale di Zugo non è però certo l’unica azienda a commerciare con Tel Aviv. Prova ne è il fatto che le esportazioni sono cresciute dell’1,1% a 517,1 milioni di franchi nel primo semestre di quest’anno, secondo dati dell’Ufficio federale della dogana e della sicurezza dei confini (UDSC). Le importazioni da Israele sono invece praticamente rimaste stabili (-0,1%) a 249,9 milioni.
Nel 2024 la Corte internazionale di giustizia (CIG) dell’Aia ha emesso un parere in cui sottolineava l’obbligo degli Stati di non favorire l’occupazione dei territori palestinesi. “La Svizzera ha l’obbligo di non acquistare beni provenienti dai territori occupati”, ha spiegato Damien Scalia, professore di diritto penale internazionale all’Università libera di Bruxelles ed ex presidente della Lega svizzera dei diritti umani (LSDH) a Ginevra.
I beni a duplice uso, come macchine utensili, pompe, valvole, convertitori di frequenza, circuiti stampati o software di crittografia, sono i più problematici, poiché possono essere utilizzati sia per scopi civili che militari. È per questo motivo che la loro esportazione richiede un’autorizzazione della Segreteria di Stato dell’economia (SECO). Secondo il professore belga, senza dubbio alcune aziende elvetiche commerciano con l’esercito israeliano. Un’indagine della LSDH in tal senso è in corso.
Investimenti controversi
Anche gli investimenti finanziari veri e propri sono ormai controversi. La Cassa di previdenza dello Stato di Ginevra (CPEG) ha deciso in luglio di separarsi da obbligazioni di Israele. Secondo Scalia, assicurazioni svizzere avrebbero partecipazioni in società israeliane che prendono in qualche modo parte al conflitto israelo-palestinese. Sulla stampa è circolato il nome della Suva.
Quest’ultima società ha effettivamente investito in Israele per un totale dello 0,12% del suo patrimonio. Il tutto è ripartito fra obbligazioni, per circa 49 milioni di franchi, azioni (16 milioni) e fondi di investimento privati (9 milioni). “Deteniamo le obbligazioni direttamente, mentre le azioni sono gestite da un fondo terzo”, ha precisato una portavoce dell’assicuratore ad AWP. La Suva sta esaminando la situazione: “Ad oggi, non siamo ancora in grado di fornire una valutazione definitiva”, ha detto.
La Banca nazionale svizzera (BNS) è stata più volte evocata dalle Camere federali per i suoi investimenti. Sotto accusa, in particolare, la partecipazione nell’azienda israeliana di armamenti Elbit Systems, conosciuta per aver venduto droni all’esercito svizzero. A metà settembre, la BNS era in possesso dello 0,19% di Elbit Systems, secondo dati messi a disposizione dalla società.
La BNS ha preferito non esprimersi “sulle posizioni individuali del portafoglio” e ha rinviato ai propri principi di politica d’investimento. Nel paragrafo consacrato agli aspetti non finanziari presi in considerazione, si può leggere che la BNS “si astiene dall’acquistare titoli di imprese che violano in maniera flagrante i diritti umani fondamentali”.
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