Le loro esigenze, ha sottolineato Leimgruber, non sono prese in considerazione nella procedura e “l’ammissione provvisoria è un concetto obsoleto”, mentre sarebbe più adeguato concedere loro uno status di protezione speciale come quello concesso ad ucraini e ucraine, ha aggiunto. Uno statuto dunque limitato nel tempo e con regole definite, in modo che le persone interessate possano diventare indipendenti il più rapidamente possibile. Ma, osserva, non esiste una politica coerente per la gestione costruttiva della migrazione, che è destinata ad aumentare in futuro.
Scuole e centri di accoglienza
Sono necessarie anche strutture chiare per la formazione e l’occupazione, continua il presidente della commissione extraparlamentare. “Mentre le procedure di asilo sono in corso, c’è bisogno di scuole e programmi di lavoro, nonché di contatti diversificati con la società, ad esempio nelle associazioni”. Leimgruber suggerisce che i richiedenti asilo minorenni dovrebbero essere in grado di accedere alla formazione senza lunghe interruzioni. “Con l’Agenda per l’integrazione della SvizzeraCollegamento esterno siamo sulla buona strada. Ma deve valere per tutti”.
Un altro problema per i minori richiedenti asilo è che i centri di accoglienza funzionano come caserme, osserva Leimgruber. “E le caserme non sono adatte all’infanzia. Ci sono guardie in uniforme, il che è spaventoso per creature che fuggono da zone di guerra”. Inoltre, le condizioni e il personale che si occupa di loro cambiano continuamente, ma: “Bambine e bambini hanno bisogno di costanza, familiarità e persone di riferimento, senza le quali possono insorgere problemi di sviluppo, con un grande costo per la società”.
Nell’intervista, Walter Leimgruber ha fatto riferimento all’esperienza con l’immigrazione italiana nel secolo scorso. La Commissione che dirige fu creata cinquant’anni fa, in seguito al fallimento dell’iniziativa Schwarzenbach. Tuttavia, ricorda il TagesAnzeiger, da allora ci sono state undici ulteriori iniziative di simile spirito. Secondo Leimgruber: “è una reazione tipica dell’essere umano, non ci piacciono i cambiamenti e quasi sempre in principio c’è resistenza. Ma questo non significa certo che siamo tutti razzisti. Serve tempo, per abituarsi alle novità. Ma se pensiamo alla nostra esperienza con l’immigrazione italiana di quegli anni, dove gli uomini erano soprannominati “Tschinggen” e stigmatizzati come pigri e molesti con le donne, e guardiamo invece come è finita, oggi sappiamo che hanno arricchito la società svizzera, della quale ora fanno parte a tutti gli effetti. Fra vent’anni, sarà lo stesso con le persone che adesso arrivano dall’Afghanistan o dall’Eritrea. E non possiamo far finta di non sapere che presto la metà della nostra popolazione avrà origini in altri paesi. Dobbiamo offrire prospettive, per non rischiare di ritrovarci in situazioni critiche come quelle che si osservano nelle periferie francesi”.
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