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Agroalimentare: “molti non conoscono i margini dei loro prodotti”

mietitrebbiatrice in azione
Molti conoscono il risultato complessivo della loro attività, ma non i margini o le perdite generate da un particolare prodotto. Keystone-SDA

Tutti ne parlano, ma a quanto sembra nessuno li conosce davvero: sono i margini realizzati sui prodotti agricoli, che da tempo suscitano accese discussioni in Svizzera fra i vari attori della filiera alimentare.

Una ricercatrice vodese, Dominique Barjolle, ha cercato di far luce con il suo team sul tema dei margini di guadagno dei prodotti agroalimentari, giungendo a conclusioni anche sorprendenti.

“In generale gli operatori del ramo dicono di essere molto motivati dall’idea di stabilire prezzi equi, ma lo sono molto meno nel fornire le proprie cifre”, spiega la responsabile di ricerca attiva all’Università di Losanna (UNIL) in un’intervista pubblicata oggi dal quotidiano vallesano Le Nouvelliste.

“Per raggiungere il nostro obiettivo, era essenziale poter contattare tutti gli anelli della stessa catena. Abbiamo quindi chiesto alle persone incontrate di fornirci il nome del loro acquirente, in modo da poterlo contattare. Il problema è stato spesso questo: anche se l’anonimato era garantito, gli agricoltori o gli intermediari temevano che il loro acquirente li avrebbe identificati e avrebbe usato le informazioni ottenute nel nostro studio come strumento di pressione”.

Lotte di potere

Concretamente sono state contattate 1’000 persone, ma solo il 5% ha accettato di partecipare allo studio. “Questo dimostra che gli attori del ramo non lavorano in partenariato, ma sono bloccati in preoccupanti lotte di potere. Per stabilire prezzi equi, tutti dovrebbero giocare la partita della trasparenza. Questa è una condizione fondamentale per ottenere la fiducia di tutti gli attori delle filiere, dal produttore al consumatore, e per ottenere una distribuzione più equa della creazione di valore.

“Questa trasparenza presuppone una certa fluidità nelle relazioni tra i vari attori. Oggi non è così: tutti si accusano a vicenda di ottenere i margini più alti, di fare il bello e il cattivo tempo”, osserva l’esperta. “Siamo rimasti sorpresi nel constatare che molti operatori navigano a vista: alcuni hanno scoperto per la prima volta, partecipando alla nostra ricerca, quanto costa loro o quanto fa guadagnare un prodotto”

“Molti conoscono il risultato complessivo della loro attività, ma non i margini o le perdite generate da un particolare prodotto. Ad esempio, grazie al nostro studio un mulino ha appreso che stava perdendo soldi con il pane semi-bianco. Capita anche che le aziende agricole o commerciali siano costrette a combinare una produzione redditizia con una in perdita per trovare un equilibrio economico”.

L’esempio del tofu

È emerso anche il caso di un dettagliante che vede generarsi sistematicamente perdite con il tofu. “In questo caso, stiamo parlando di un rivenditore che deve assolutamente avere tale articolo nel suo assortimento. Può darsi che allo stesso tempo realizzi margini elevati su altri prodotti, ma per esso è importante avere il tofu per soddisfare e fidelizzare i clienti. Il segmento in questione dimostra anche che, in questo caso, i produttori se la cavano piuttosto bene. Si tratta quindi di un’interessante nicchia di mercato per gli agricoltori”.

Lo studio (“Transparence économique de produits agricoles en Suisse romande”, che in italiano significa “Trasparenza economica dei prodotti agricoli in Svizzera romanda”) realizzato da UNIL su mandato del cantone mostra che i contadini spesso traggono profitto solo dai pagamenti diretti, ciò che può rappresentare un problema. “I pagamenti diretti non sono stati originariamente concepiti per remunerare i prodotti, ma per retribuire i servizi che gli agricoltori forniscono alla società”, spiega la specialista. “L’idea era quella di evitare una corsa verso un’agricoltura sempre più intensiva”.

“Se i pagamenti diretti vengono assorbiti come sussidi ai prodotti, ciò significa che su tutta la terra che i contadini dedicano ad altre attività, come il mantenimento del paesaggio o la conservazione della biodiversità, non guadagnano affatto: il denaro che dovrebbero ricevere per tali ambiti scompare nella produzione”.

“In un certo senso, il nostro studio dà voce a un malessere espresso da tempo dagli agricoltori, che si sentono svalutati per non essere in grado di vivere solo dei loro prodotti: la loro rabbia è quindi comprensibile”, conclude Barjolle.

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