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A vent’anni da quell’11 settembre

Le torri gemelle di New York mentre bruciano.
Vent'anni fa. Keystone / Marty Lederhandler

11.9.2001 – 11.9.2021. Sono passati vent’anni dagli attentati terroristici negli USA che hanno fatto 2’977 vittime. A New York, a Washington, in un campo della Pennsylvania. Per ricordare l’anniversario di uno spartiacque nella storia contemporanea, le cui conseguenze arrivano sino a oggi, vi proponiamo una serie di ritratti americani: “i volti dell’11 settembre”.

Joe il sopravvissuto

C’è un prima e un dopo. Joe la data ce l’ha tatuata sulla pelle. Undici settembre. Quel martedì del 2001, Joe Dittmar – assicuratore di Aurora (Illinois), nella sobborghi di Chicago – aveva un appuntamento al World Trade Center. Nella Torre Sud si teneva la riunione nazionale del suo gruppo assicurativo.

Il tatuaggio sul polso di Joe: 9/11
Il tatuaggio di Joe Dittmar. RSI

Alle 8:46 il boeing dell’American Airlines AA 11 centra la Torre Nord. La sua riunione al 105esimo piano viene interrotta, “bisogna evacuare il palazzo” dice la sicurezza, e tra i borbottii di chi si lamenta della frequenza degli allarmi incendio Joe inizia la sua corsa verso un’inimmaginata salvezza. Diciassette minuti dopo, alle 9:03, il secondo aereo colpisce la Torre Nord. Si schianta tra il 77esimo e l’85esimo piano. Joe è lungo le scale d’emergenza un po’ più in basso, tra il 74esimo e il 72esimo piano.

Una serie di “sliding doors” contraddistinguono il suo racconto, il suo destino quel giorno poteva cambiare più volte, e mentre scandisce le parole i suoi occhi tradiscono ancora l’emozione, una continua commossa presa di coscienza del dramma vissuto e della tragedia cui è sopravvissuto.

Dei 53 partecipanti al suo meeting di lavoro, solo sette sono sopravvissuti. Vent’anni dopo l’attentato alle Torri Gemelle, Joe Dittmar continua a fare l’assicuratore. Si è trasferito in Delaware, vicino all’oceano, e le priorità della sua vita, confessa, sono cambiate. Ogni anno da allora tiene conferenze e concede interviste sull’11 settembre. Un modo per fare i conti con il destino, tra gratitudine e sensi di colpa, perché quel giorno è impresso nel suo cuore, molto più in profondità di un semplice tatuaggio.

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Il veterano ragazzino

C’è una buona dose di patriottismo negli Stati Uniti quando si parla di 11 settembre. Lo dimostrano i vessilli a stelle strisce che da quel giorno fanno bella mostra di sé nei giardini, sui balconi, sui tetti delle abitazioni, sui radiatori delle auto o le cassette della posta americane. “Bandierone, bandierine, bandiere delle normali dimensioni di una bandiera” come ebbe a scrivere David Foster WallaceCollegamento esterno l’indomani dell’attacco, perché servono “per dimostrare il nostro sostegno e la nostra solidarietà rispetto a quello che sta succedendo, quanto americani”.

Tante bandiere americane
Bandiere per commemorare le vittime dell’11 settembre. Keystone / Etienne Laurent

Patriottismo, orgoglio e… rabbia come dimostra il fatto che la hit di quei giorni era l’elogio all’Angry American Collegamento esternodi un noto cantante country. Sull’onda di quel moto di patriottismo e orgoglio per difendere l’America ferita, migliaia di giovani statunitensi si sono arruolati, nel 2001 per combattere in Afghanistan Collegamento esternoe, nel 2003, in Iraq. Tra di loro c’era anche Eric Donoho, ma nel suo sguardo non sembra esserci traccia di rabbia.

Oggi ha 43 anni ma sembra un ragazzino e raccontando le ragioni del suo reclutamento, dopo lo choc dell’11 settembre, ammette di essere stato “naïf”, ingenuo, ero convinto che i soldati americani “portassero il bene”. In guerra Eric c’è stato tra l’ottobre 2006 e il febbraio 2009. In mezzo un matrimonio di pochi mesi e una lenta discesa nelle tenebre della guerra. “Ero convinto che sarei morto”, ripete quasi candore nel corso dell’intervista.

Il ritorno a casa, dopo essere stato vittima di ben tre attacchi esplosivi, non è meno facile. La moglie lo scopre diverso, ipervigilante, teso (“Non ero più in grado di parlare senza infarcire le frasi di ‘f*ck’”), segue la depressione, il tentativo di suicidio. Quindici soldati del suo battaglione si sono tolti la vitaCollegamento esterno, ma Eric trova una via d’uscita, una luce. Un amico commilitone gli fa riscoprire la fotografia e l’escursionismo. Cambia lavoro e cambia vita. E nonostante il volto e lo sguardo sembrano quelli di un ragazzino – “come quando al college vidi per la prima volta le immagini dell’11 settembre” – ammette “non passa giorno che non pensi al mio periodo in guerra”.

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Nel nome del fratello

Quel martedì di settembre per Ken era un normale giorno di servizio. Ricorda le immagini viste alla centrale di polizia della torre nord in fiamme dopo lo schianto del primo aereo, poi esce in pattuglia e spegne il telefonino. Quando lo riaccende, non solo il mondo è cambiato, ma anche la vita della sua famiglia. A bordo del quarto aereo dirottato dai terroristi c’è il suo fratello maggiore Louis, detto “Joey”.

“Joey” è uno dei 37 passeggeri a bordo del volo United 93. Tratta Newark – San Francisco, durata del viaggio cinque ore e mezza, ma dopo tre quarti d’ora dal decollo l’aereo è dirottato. I terroristi di Al Qaeda vorrebbero dirigerlo contro la Capitale, la Casa Bianca o il Campidoglio, non si sa, ma i passeggeri saputo quel che è accaduto a New York si organizzano e decido di ribellarsi a quel destino. “Un gesto eroicoCollegamento esterno”, dice commosso Ken, “che ha permesso che noi potessimo continuare a vivere come fosse il 10 settembre 2001”.

Il logo dell associazione del volo 93.
L’11 settembre non ha colpito solo New York… RSI

Parlando del fratello e di quel giorno, Ken si accalora e si emoziona. Si inorgoglisce parlando del senso di responsabilità ereditato dal padre e dal fratello e del sacrificio di “Joey” e degli altri passeggeri. Si commuove e poi trattiene le lacrime quando ricorda la tristezza del papà – morto poche settimane dopo l’11 settembre – che non riusciva ad accettare la morte del figlio (“Senseless, insensato morire così”, diceva).

Raccontare di “Joey”, perpetuare la memoria del fratello e dei passeggeri del volo 93, dice Ken, gli ha permesso di accettare quello che è accaduto. Il giorno del ventesimo anniversario dell’11 settembre tornerà a Shanksville in Pennsylvania, nel campo dove precipitò il Boeing e dove oggi – anche grazie ai fondi che Ken ha aiutato a raccogliere – è stato costruito un memoriale. Un ricordo di chi ha “ha dato la vita per gli altri”. Uno slancio ideale che, a vent’anni di distanza, nell’America oggi può sembrare un po’ offuscato.

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L’attentato visto dal Pentagono

“Era nel cuore della notte. Mio cognato mi chiama dal New Jersey e mi dice, ‘Ehi, sveglia! Siamo sotto attacco. Sono state colpite le Torri Gemelle. Accendi la TV!'” Mentre JD Gordon si trova alle Hawaii per la Marina, vicino a Pearl Harbor, il Presidente George W.Bush è in visita in una scuola in Florida.

“Immediatamente dopo gli attacchi sapevamo ci sarebbe stata una guerra. Era una catastrofe… Quasi 3’000 persone morirono quel giorno”. Portavoce della Marina, poi del Pentagono sotto George W. Bush e infine consigliere di Donald Trump, JD Gordon continua a difendere l’intervento militare di allora: “Era una guerra giusta, buona, perché gli americani credavano valesse la pena combattere nel posto dove l’11 settembre era stato tramato e da dove è partito tutto”. 

uomo in divisa mimetica parla di frnte ad alcuni microfoni
JD Gordon è stato portavoce al Pentagono dal 2005 al 2009 rsi.ch

E come giustifica il conflitto in Afghanistan, così giustifica anche quello iniziato nel 2003 in Iraq: “Ho difeso entrambe le guerre. Era legittimo proteggere gli Stati Uniti”.

Sono anni di guerra. Delle torture ad Abu Grahib, dei prigionieri a Guantanamo, di diritti negati in nome della sicurezza. “Negli ultimi 20 anni molto è cambiato. Gli Stati Uniti sono un luogo diverso, spesso proprio a causa dell’11 settembre. Abbiamo avuto spargimenti di sangue, guerre, miliardi di dollari di costi. Siamo un posto cambiato, e anche l’attenzione al terrorismo è diversa ora”.

Un Paese diverso, dove le ragioni dei conflitti sono dimenticate: “Gli Stati Uniti hanno trascorso troppo tempo nel tentativo di ricostruire delle nazioni, cercando di trasformarle in democrazie come quelle occidentali, ma non ha funzionato. Non ho rimpianti per quanto fatto a suo tempo, ma se si voleva funzionasse bisognava rimanere per sempre”.

Vent’anni dopo l’11 settembre ritirandosi dall’Afghanistan gli Stati Uniti lasciano il campo ai nemici di allora, i talebani: “Il problema è stato la modalitàin cui si è svolto il ritiro, il caos. Umiliante. Ma dopo il presidente Trump nessuno si scusa più e per questo Joe Biden non ha ammesso di aver commesso errori”.

La dottrina in politica estera sembra essere cambiata: “Non riguarda solo l’Afghanistan. È la fine di un’era di grandi interventi militari. (…) Le politiche in America possono cambiare da un giorno all’altro. Con un altro 11 settembre, la dottrina sarebbe differente. Vedreste gli americani unirsi e sostenere le truppe. Biden ha fatto bene a ritirarsi, come l’avrebbe fatto Trump”.

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Pompieri eroi della tragedia

“Ringrazio Dio ogni mattino quando mi alzo. Quando hai visto cose come l’11 settembre, ogni giorno che passa provi più gratitudine per la vita”. Quando è arrivata la notizia delle due torri erano tutti un po’ confusi: ‘Aspetta, in che senso sono crollate?’ continuavano a chiedere”. Con queste parole il comandante dei pompieri New Rochelle (nord del Bronx, New York) Andrew Sandor racconta quel giorno di 20 anni fa. Sandor oggi ha 56 anni e da 25 porta la divisa da pompiere.

Ricorda bene gli interrogativi di quel giorno: “Non avevamo idea se ci sarebbero stati altri attacchi, cos’altro sarebbe successo. Sapevamo solo che dovevamo andare a New York. Così, mentre andavamo ci salutavamo gli uni gli altri, perché non sapevamo se saremmo sopravvissuti a quel giorno.”

uomo con capelli grici e camicia bianca con stemma dei pompieri sulla spalla sinistra. dietro di lui un camion dei pompieri
rsi.ch

L’11 settembre e le seguenti settimane, Sanders le trascorre a sud di Manhattan: “Non c’erano automobili che andavano verso New York quel giorno, una nuvola gigante saliva da dove le torri erano appena crollate e il fumo andava verso Long Island”.

Quando arriva a rinforzo dei pompieri già attivi sul posto, gli edifici sono tutti crollati: il World Trade Center era ormai divenuto Ground Zero: “Abbiamo iniziato a scaricare l’attrezzatura, ma… c’era una sensazione… di vuoto. Era come trovarsi nell’altro mondo”.

Un vuoto riempito di distruzione, smarrimento e dolore. Sono oltre 2’000 i soccoritori e pompieri giunti sul posto. Ed è un dettaglio a colpire Andrew: “Arrivando da West Street, abbiamo visto una fila di ambulanze in attesa. Normalmente, in queste circostanze, si vedono le ambulanze andare e venire in continuazione. Ma queste erano lì ferme e io ho pensato ‘Non dovrebbero andare ad aiutare?’, ma non c’era più nulla da fare a quel punto, era la fine”. 

Inizia la ricerca dei sopravvissuti, un lavoro che Andrew ancora oggi fa fatica a descrivere: “Non abbiamo trovato nessun sopravvissuto, ma c’erano molti… Beh, per la TV erano immagini un po’ forti: resti, cose così… usate l’immaginazione”.

L’11 settembre sono morti 412 soccorritori, tra cui 343 pompieri. Un sacrificio che non è stato dimenticato: “Questo [Ground Zero, ndr] rimarrà sempre un luogo di cordoglio e di commemorazione, ma è anche un luogo di vita. Siamo a New York! Le cose accadono, ti prendi un colpo, ti ripulisci e riparti. La vita va avanti.”

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