Finestra sul cortile
Con il protrarsi dell'emergenza, la voglia degli italiani di riunirsi per un canto corale è ormai venuta meno, constata la nostra giornalista Gaëlle Courtens. Ora è tempo di lutto.
Per una settimana, nel mio cortile, tutt’i giorni alle 18 si sono fatti largo flauti, chitarre, clarinetti, tamburi e cori improvvisati, in una sorta di rituale per scacciare insieme al coronavirus anche la noia e lo sconforto. Una baldanza cacofonica che usciva dalle finestre del mio condominio e che per un po’, è vero, ci ha tirato su il morale in questi tempi di isolamento coatto.
L’idea di cantare dai balconi ha rapidamente fatto il giro del mondo: persino dalla mia città natale, Zurigo, dove la diffusione del coronavirus imperversa con una decina di giorni di sfasamento, mi sono giunti video di allegre cantate serali esibite sui balconi.
Proverbiale puntualità
L’idea della serenata aveva subito contagiato anche il mio condominio, solitamente poco avvezzo a slanci comunitari. La filosofia che regna nel nostro lotto è dettata piuttosto dall’”Ognuno per sé e Dio per tutti”.
Sin dal giorno successivo alla chiusura totale di tutto il paese, la mancata socialità imposta dalle misure anti-Covid19 è stata puntualmente riscattata dalle finestre anche del mio lotto.
Il primo giorno, alle 18, mi ero affacciata sul lato della strada, cercando di capire se nel mio quartiere qualcuno avesse captato quel messaggio WhatsApp: “iniziativa fantastica!”. In lontananza qualcosa si sentiva, forse l’inno di Mameli, quando mia figlia mi chiama dalla cucina: “sono tutti qui!”. I miei condomini istintivamente si erano dati appuntamento sul lato del cortile.
A forma di triangolo, con in mezzo due antichi alberi di magnolia, il cortile si presta bene ad una esibizione corale e fa da magnifica cassa di risonanza. Procedendo il primo concerto però in modo del tutto anarchico, i vicini del terzo piano hanno preso in mano la situazione, e intonato un accorato “Bella Ciao”! Ogni giorno, puntualissimi, sono stati loro a dare il “la” al condominio. Cronici ritardatari in tempi normali (la mattina, quando portano i ragazzini a scuola, è una corsa contro il tempo), alle 17.58 – per una settimana – non mancavano di spalancare la finestra sul cortile, proponendo un repertorio tutto loro: da Simon e Garfunkel ai canti spiritual degli schiavi afroamericani, passando per Renato Zero.
File mai viste
Da buona svizzera mi sono chiesta: ma ci fosse, con questo coronavirus, in atto qualche mutazione antropologica? Costretti in casa, i romani si scoprono puntuali?
Per non parlare delle file davanti ai supermercati e alle farmacie, unici esercizi aperti nel quartiere. Trent’anni fa, il mio primo impatto con le “non-file” alla posta, tra spintoni e gomitate, fu traumatico. Le cose si calmarono quando finalmente vennero introdotti i “numeretti”.
Ma quel che i miei occhi hanno visto in questi giorni, esula da ogni immaginazione. La gente sta ore a due metri gli uni dagli altri in attesa del proprio turno per fare la spesa. Una situazione quasi britannica. E una volta dentro, essendoci pochissima gente e niente file alle casse, ci si prende tutto il tempo per soppesare ogni acquisto. Fare la spesa è diventata una tra le pochissime attività che spezza la noia della quarantena e distrae dal quotidiano bollettino di guerra con l’enumerazione dei decessi.
Il contraccolpo
Giovedì scorso alle 18, come di consueto, ho aperto la mia finestra sul cortile per cantare insieme ai vicini di casa e farci coraggio. Ma mi ha accolto un silenzio tombale. Mi sono chinata sul davanzale per dare un’occhiata verso la finestra degli amici dell’altra scala, al 4° piano, ma niente. Tutto chiuso. Che desolazione, che sconforto!
Dopo qualche verifica mi sono resa conto che anche questa era un’azione concordata dai “confinati in casa”, un gesto dedicato ai tanti, troppi caduti di questa malattia infame, e ai loro famigliari che nemmeno hanno potuto salutare i propri cari. Il mio condominio era in lutto. E con lui tutta la città, avvolta in un silenzio surreale inframmezzato solo da qualche stridulo richiamo di gabbiano.
Andrà tutto bene
Da quel giorno il mio cortile si è ammutolito. Solo qualche lotto più giù si sente qualcuno che alle 18 puntuali non demorde. Ma ormai c’è “maretta”, come si dice a Roma. Siamo tutti un po’ “abbacchiati”: lo si percepisce pure dalla fila più silenziosa davanti al supermercato.
Se penso che a Zurigo stanno scoprendo adesso i canti dai balconi… chissà quanto dureranno. La quarantena è lunga, e in fondo non siamo preparati. In questo siamo tutti uguali, non c’è specificità culturale che tenga. Agli amici zurighesi per ora posso solo proporre una ben magra consolazione: “L’anno che verrà” di Lucio Dalla, che abbiamo cantato a squarciagola l’altra sera. Perché “l’anno che sta arrivando, tra un anno passerà, io mi sto preparando, è questa la novità”.
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