Un permesso per l’illegalità
I rifugiati che non hanno più accesso al sistema d’assistenza, spesso non hanno altra scelta che quella di ammassarsi in case fatiscenti occupate illegalmente. Nella capitale gli alloggi popolari e le misure d’integrazione infatti scarseggiano.
Il dibattito sull’immigrazione in Italia è quantomai acceso. Dalle polemiche di quest’estate, sull’operato delle Ong nel Mediterraneo, ai discussi accordi del ministro dell’Interno Minniti con presunte milizie libiche per il blocco delle rotte via mare. I disordini scoppiati a Roma a fine agosto, per lo sgombero del palazzo occupato dai rifugiati politici africani, in via Curtatone.
Anche Papa Francesco, in ritorno dal recente viaggio in Colombia ha espresso la sua opinione. Il pontefice ha lodato l’impegno di Italia e Grecia per gli sforzi di accoglienza. Sulla questione dell’integrazione Francesco ha così proseguito: “Un governo deve gestire questo problema con la virtù propria del governante, cioè la prudenza. Cosa significa? Primo: quanti posti ho. Secondo: non solo ricevere, (ma) integrare”.
In Italia i posti per una reale integrazione scarseggiano, mentre gli immigrati già presenti sul territorio sono moltissimi. Sono distribuiti in gran numero nelle grandi città, per scendere alle poche unità nei piccoli centri. Dalle città, in migliaia, i braccianti stagionali impiegati in agricoltura, si diramano verso le varie località di campagna.
A livello politico e sociale, il dibattito è orientato però solo alle questioni relative al flusso dei migranti in arrivo. I rifugiati presenti sul territorio non smuovono l’interesse collettivo, rileva il sociologo Domenico De Masi. Sono invisibili ed emarginati, perché verso di loro non c’è solidarietà. Un fenomeno che accomuna tutti i paesi post-industriali e non è di certo proprio all’Italia.
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Difficile trovare un posto dove rifugiarsi
Lasciati a loro stessi
Roma ospita il maggior numero di migranti. I centri di accoglienza autorizzati della Prefettura e del Comune, assistono attualmente novemila migranti. Nei centri CARA, Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo, si concentrano i migranti appena sbarcati. I centri CAS, Centri di Accoglienza Speciale, costituiscono il secondo passo dell’assistenza. Entrambi sono gestiti dalla Prefettura. Segue il circuito Sprar, Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, che viene gestito dal comune di Roma.
I rifugiati assistiti in queste strutture, sono in attesa di un documento di protezione internazionale, oppure di essere rimpatriati nei paesi d’origine, qualora non presentino i requisiti necessari. I rifugiati a cui si respinge la richiesta, solitamente fanno ricorso in tribunale. Alcuni migranti, una volta rimpatriati, tornano a intraprendere le rotte via mare, approdando nella penisola più volte.
Per chi resta in Italia, parte l’iter per la convalida di un documento di protezione internazionale, la procedura può durare un paio d’anni. Nella fase preliminare della domanda, che dura qualche mese è prevista una assistenza completa, un posto letto, cibo e vestiario. Terminata questa fase, i rifugiati politici vengono allontanati dai centri e lasciati a loro stessi. Si ritrovano in strada, senza la capacità di comunicare nella lingua italiana, senza un posto dove andare.
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Sgomberare, e dopo?
Queste persone, vanno ad aggiungersi agli oltre tremilacinquecento rifugiati che vivono a Roma, in condizioni di precarietà. In questa fase intervengono le organizzazioni di volontariato e le associazioni di beneficenza, fornendo loro sostegno. Occupandosi delle loro primarie necessità, dell’assistenza medica, del sostegno legale. Li mettono a conoscenza dei loro diritti e li orientano nelle burocrazie. Per molti rifugiati, l’interazione con gli assistenti sociali è l’unica occasione di rapporto con il paese ospitante.
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Un mero pezzo di carta
La maggior parte dei rifugiati presenti a Roma è stanziale. Molti provano a spostarsi in altri paesi europei, dove non possono stabilirsi per gli effetti della convenzione di Dublino, che li confina al primo paese d’approdo. Quindi vengono rispediti indietro.
Un centinaio di occupazioni abusive
Salvo percentuali trascurabili di rifugiati che sono riusciti ad integrarsi, per la maggior parte degli immigrati con regolare permesso di soggiorno, la vita in Italia è tutt’altro che facile. Non potendo permettersi una casa in affitto e non avendo nessuna forma d’assistenza, sono costretti all’illegalità. Per togliersi dalla strada vanno a vivere in palazzi abbandonati e fatiscenti.
Nella capitale si stimano circa un centinaio di occupazioni abusive. Tra le più grandi, i cosiddetti “palazzoni”, era incluso il palazzo di via Curtatone, che si trova nei pressi della stazione Termini. Lo scorso ventiquattro agosto è stato sgomberato, ci abitavano circa quattrocento rifugiati africani, etiopi ed eritrei, in possesso di documento di protezione internazionale. Sono stati cacciati via con l’uso della forza. Tra loro anche molti bambini. Vivevano in condizioni di scarsa igiene, con pochi bagni in comune. Riscaldamenti di fortuna e bombole a gas.
Oltre al palazzo di via Curtatone, ci sono altri due grandi occupazioni che si trovano nella periferia degradata di Roma. Il palazzo di via Collatina, che ospita altri 400 rifugiati ed il Salaam Palace, sull’Anagnina, nella zona di Tor Vergata. Quest’ultima occupazione risale a dodici anni fa, molti rifugiati ci vivono stabilmente. È il palazzo occupato più popolato, conta circa un migliaio di persone provenienti dal corno d’Africa, dal Sudan, dalla Somalia, dall’Eritrea e dall’Etiopia.
Un’attesa lunghissima
Nei palazzi occupati i rifugiati si raggruppano per etnie, assistendosi vicendevolmente. Il loro problema principale è il lavoro. Anche se molti hanno delle professionalità, quando trovano impiego, si tratta di per lo più di lavoretti di facchinaggio. Poi ci sono i venditori ambulanti, i banchisti ai mercatini.
Per ottenere un lavoro più serio si possono attendere anche molti anni, sgomitando nel contesto della povertà italiana. Rispetto agli italiani poveri, i rifugiati, devono confrontarsi anche con il pregiudizio, che in molti casi persiste verso gli stranieri. Si scontrano con la diffidenza di chi dovrebbe offrire loro lavoro, o affittargli l’appartamento. Gli impieghi che trovano, sono spesso lavori a termine e senza tutele. I pochi avviati verso l’integrazione, sanno che se perdono il lavoro, rischiano di ripiombare nelle occupazioni. Vivono una condizione di fragilità, esposti al ricatto e allo sfruttamento.
L’unico sbocco da questa condizione, è l’ottenimento di una casa del Comune, una casa popolare, che prevede un basso canone mensile. I pochi che ci sono riusciti, hanno atteso anche quindici anni, scalando lunghissime liste d’attesa. Partecipando alle attività e le manifestazioni dei movimenti di lotta per la casa, spalla a spalla con i poveri italiani.
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La lunga e dura lotta per una casa
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